La pandemia sta accentuando la disruption della distribuzione

L’odierna catastrofe, qual è l’inaspettata e fulminea diffusione del virus, sta generando un grande e caotico dinamismo, e coloro che sono preparati o pronti ad approfittare della situazione distruggeranno progressivamente l’efficacia del know how delle imprese consolidate

L’uso individuale del tempo e dello spazio
L’uso individuale del tempo e dello spazio si riconfigura trovando soluzioni diverse, a loro modo più efficienti, dato l’obbligo di convivere con la pandemia.

Lo scorporo e la dissoluzione di un’azienda come Auchan, le sofferenze dei centri commerciali, il trasferimento di goodwill dalle insegne leader verso i discount Aldi, Lidl ed Eurospin in particolare (e ciò anche in categorie che sembravano loro proibite come l’ortofrutta, viste le ricerche collaterali al nostro Cx Store Award), la penetrazione dilagante di Amazon e dei suoi epigoni: sono alcuni dei fatti che inducono a chiederci cosa stia succedendo nella distribuzione al dettaglio. Tutto questo non solo e non tanto come fatturati (attenzione alla schiavitù delle metriche!), quanto come attitudini e predisposizioni di larghe fasce di clienti delle classi medie, influenzate dai “grappoli” di innovazioni nell’attività commerciale. A complicare ulteriormente il tutto, aggiungiamoci la persistente pandemia e l’enorme, spaventosa, crescente bolla finanziaria di cui tutti sembrano voler ignorare l’incombente presenza. Pertanto, concentriamoci pure sull’imminente campagna natalizia, ma soffermiamoci anche a riflettere sulle prospettive a 5 o, meglio, a 10 anni del mondo dei consumi. E poniamoci anche l’abituale domanda: com’è possibile che grandi aziende, eccellenti nelle procedure e nei metodi che le hanno rese forti e dominanti, possano trovarsi in difficoltà spesso gravi? Come presupposto al ragionamento economico-predittivo serve, allora, una buona dose di cinismo, molto più degli auspici e dei pensieri “in positivo”. Nei primi anni ’30, quando si prese atto che ci si trovava di fronte a una grande depressione, Joseph A. Schumpeter, economista celebre, abile cavallerizzo e seduttore impenitente, dal suo rifugio privilegiato e sicuro di professore di Harvard ebbe a manifestare il suo rinnovato, entusiastico interesse per quel fenomeno che egli interpretava come un lavacro rivitalizzante di un capitalismo debilitato dalla speculazione finanziaria. Schumpeter condivideva (posizionandosi a 180 gradi rispetto a Karl Marx) la visione drammatica di un sistema complesso che non poteva convergere e rimanere in uno stato di generale equilibrio. Egli lo concepiva piuttosto come il risultato di un perenne processo evolutivo, con i foschi tratti darwiniani di una dura selezione, determinata dall’ambiziosa creatività di imprenditori “eroici”, dalle ricadute tecnologiche del pensiero scientifico e dalla fortuna mischiata all’incertezza. Dalle catastrofi (parola il cui etimo è κατά “giù” e στρέϕω “voltare” o rivoltare o ribaltare) del sistema sarebbero scaturite tragiche sparizioni di attività obsolete e sviluppi di produzioni nuove per nuove esigenze insoddisfatte. Certamente ciò comprendeva un’inevitabile sofferenza che la politica economica può rendere acuta e breve o, viceversa, più tenue ma prolungata.
Nel medio-lungo periodo Schumpeter ebbe ragione. Le conseguenze della depressione furono molteplici: la nascita del marketing moderno, l’applicazione di nuove tecnologie, ma soprattutto nuovi processi e organizzazioni industriali, nonché lo sviluppo impetuoso della moderna distribuzione. L’odierna catastrofe, qual è l’inaspettata e fulminea diffusione del virus, porterà conseguenze irreversibili e non tutte negative. Ciò detto, sebbene io sia restio a usare il termine “disruption” parlando dei trend e delle vicende aziendali legati ai consumi, un campo nel quale sono probabilmente un po’ meno ignorante che in altri, lo utilizzerò lo stesso. Questo termine, molto spesso usato e anche abusato, non si traduce con “distruzione” (destruction), ma con “creazione di disordine, alterazione di un equilibrio preesistente”, cioè una situazione indefinibile, ma pur ricca di cambiamenti meritevoli di una riflessione più teorica che cronachistica. Dunque, guardando ai fatti documentati dello scenario del largo consumo, la prima vera scoperta, conveniamolo, è di non essere intellettualmente attrezzati a interpretare l’odierna situazione, maledettamente complessa. I ricorsi a metafore e paragoni storici – la Guerra Mondiale, la crisi del ’29 ecc. – ingenuamente suggestivi, sono fuorvianti, se non deleteri. Anche le relative prescrizioni terapeutiche che ne discendono sono assolutamente eccentriche rispetto alla natura del problema. Il fatto è che la cultura economica della nostra business community è intrisa di un logoro keynesismo. Tutto e sempre viene interpretato come una mancanza di redditi. Ironicamente, oggi accade proprio il contrario, a essere tarpata è l’offerta: dalle proiezioni cinematografiche alle visite dagli estetisti, dagli eventi sportivi ai soggiorni turistici, fino ai percorsi ferroviari e autostradali e via elencando, tutte situazioni che non hanno più i clienti di prima. La paura e la prudenza inducono alla rinuncia. L’uso individuale del tempo e dello spazio si riconfigura trovando soluzioni diverse, a loro modo più efficienti, dato l’obbligo di convivere con la pandemia. Il largo consumo è ovviamente meno colpito di altri comparti e, tuttavia, non è esente dagli effetti della disruption. In sintesi, è in atto un’esondazione merceologica che trasforma i mercati massificati in una “massa di nicchie”, per dirla con Chris Anderson. E se alcuni, i discount e i lifestyle store, puntano sulla logica dell’essenzialità e dei prezzi più bassi, altri vogliono gestirla puntando sulla specializzazione e sul servizio. Tuttavia, questa strategia necessita in primis, da parte della clientela, di tempo dedicato e attenzione. Il Covid-19, ovunque, ha dimostrato però che il pubblico adesso non ama andare più volte e sostare a lungo nel punto di vendita. Non ama neppure interagire troppo con il personale o con i promoter. Dunque, il disegno e l’organizzazione di luoghi pensati per trattenere il più possibile il cliente e per gestire un’ingente mole di traffico costituisce un assunto di cui verificare l’efficienza.
In secondo luogo, la specializzazione, in un complesso fatto di nicchie sempre più numerose, obbliga a rafforzare la cultura merceologica dei retailer e a una gestione delle tante supply chain più lungimirante. Il principio delle “preferenze rivelate”, sintetizzato da un foglio Excel delle vendite di breve periodo di prodotti messi a scaffale e abbandonati a sé stessi, si fonda sul presupposto che i clienti siano perfettamente informati e in grado di percepirli visivamente e di comprenderne tutte le caratteristiche autonomamente. Ovvero, ciò che non si è venduto, non è gradito. La qualcosa è logicamente falsa. C’è poi un altro aspetto da considerare: il sistema della consegna differita della merce (click&collect e home delivery) è letteralmente esploso per effetto della pandemia. Lo sviluppo graduale di questa tecnica è stato alterato da questa brusca accelerazione. Tutti i vari sistemi hanno mostrato inevitabili disfunzionalità, che motivano una domanda: fino a che punto le varie architetture di processo (di Tannico, Supermercato 24, Crai, Esselunga, tanto per fare degli esempi) sono scalabili verso l’alto, garantendo finalmente profitti apprezzabili? E in che tempi? E ancora una volta come organizzeranno le loro supply chain? Come evolveranno i modi della comunicazione alla clientela?
L’emergenza è stata un test formidabile per quelle tecnologie applicate al commercio che sembravano tanto promettenti. Ebbene, nonostante esse abbiano occupato tanto spazio e tempo nei convegni della nostra business community, va detto che non hanno fornito grandi sorprese. Neppure negli Usa. Consegne con i droni, negozi cashless, le applicazioni più stupefacenti della virtual reality, l’uso degli avatar instore e online non sembrano essersi avvalsi del booster pandemico. Paradossalmente, i capisaldi delle nuove strategie di sopravvivenza e di sviluppo sono stati la gestione delle risorse umane e la logistica.
In conclusione, questi sono solo alcuni aspetti di un periodo di grande, caotico dinamismo che produrrà vittime e outsider nel settore del commercio. Per cui, dando per scontato che ogni settore e ogni categoria vive una propria storia e che sta navigando in acque sconosciute (poiché il fashion non vive i problemi della ristorazione, l’elettronica non è il grocery e così via), l’interpretazione dei fatti può essere riassunta in un principio comune ben evidenziato da Rachel Henderson. Le “architectural innovations” di coloro che sono preparati o pronti ad approfittare della situazione generata dal Covid-19 distruggeranno progressivamente l’efficacia del know how delle imprese consolidate, incorporato nel sapere e nella prassi della loro organizzazione. E questo rapido logorio sarà la causa della “distruzione creativa” schumpeteriana che occhi attenti possono già cogliere nelle sue evidenze.

LE CATASTROFI RIVITALIZZANTI DI SCHUMPETER

Di fronte alla grande depressione economica dei primi anni ’30 Joseph A. Schumpeter ebbe a manifestare il suo rinnovato, entusiastico interesse per quel fenomeno che egli interpretava come un lavacro rivitalizzante di un capitalismo debilitato dalla speculazione finanziaria. Schumpeter condivideva (posizionandosi a 180 gradi rispetto a Karl Marx), la visione drammatica di un sistema complesso che non poteva convergere e rimanere in uno stato di “generale equilibrio”. Egli lo concepiva piuttosto come il risultato di un perenne processo evolutivo, con i foschi tratti darwiniani di una dura selezione, determinata dalla ambiziosa creatività di imprenditori “eroici”, dalle ricadute tecnologiche del pensiero scientifico e dalla fortuna mischiata all’incertezza. Dalle catastrofi del sistema sarebbero scaturite tragiche sparizioni di attività obsolete e sviluppi di produzioni nuove per nuove esigenze insoddisfatte. Certamente ciò comprendeva un’inevitabile sofferenza che la politica economica può rendere acuta e breve o, viceversa, più tenue ma prolungata.

AMAZON VINCENTE ANCOR PRIMA DEL LOCKDOWN

Un’occasione simile al lockdown, in termini di disponibilità a interagire online con i supermercati, forse non si ripresenterà più. I siti delle varie catene non sembrano, tuttavia, essere stati potenziati (anche solo sperimentalmente) dagli algoritmi di data mining, di ai e di machine learning. La promessa, in certi casi, era di comprendere a fondo le preferenze dei clienti, se non addirittura anticiparne le decisioni di acquisto, sollecitandole con nuove forme di promozioni. A conti fatti, un sito spartano e pragmatico come quello di Amazon ha funzionato magnificamente perché mosso dalla profondità e dall’ampiezza sterminate del catalogo del suo “Everything store”, dal suo sistema di acquisto e d’intermediazione e dalla geniale, precoce intuizione di creare una fitta rete di pick up point (edicole, uffici postali, stazioni di servizio ecc.) che hanno risolto un semplice e banale problema, ovvero la necessità di attendere la consegna a casa, perché noi non viviamo nei detached bungalow americani, davanti ai quali posare i pacchi.

Daniele Tirelli