Siamo sicuri che i prezzi percepiti dai clienti siano proprio i prezzi reali?

L’idea che si formano i consumatori di un’insegna non sempre corrisponde alla realtà dei prezzi praticati perché frutto di una complessa elaborazione di valutazioni personali. possiamo fotografare il goodwill, ma condizionarlo è arte imprenditoriale.

La correttezza della percezione dei prezzi dei punti di vendita varia ampiamente tra differenti comunità di clienti. L’offerta di servizi e livelli di qualità vissuti come diversi causano quella distorsione percettiva”. A questa conclusione sentenziale avrei voluto arrivare io, ma prima di me v’è giunto il professore F.E Brown della Pennsylvania University, nel 1969, in un citatissimo articolo dal titolo “Price perception and price reality”. Immagino che, a questo punto, tutti i top manager delle nostre catene distributive, in tempi in cui di prezzi, costi e inflazione si parla fino alla nausea, chiedano ai collaboratori di rintracciare su internet questo articolo e di riassumerlo loro. E allora ecco il mio piccolo contributo facilitatorio, con un aggiornamento su un argomento cardine del ragionamento economico.

In definitiva sono sempre i consumatori a determinare il prezzo per il quale a un distributore conviene offrire un prodotto

Il marketing, per sua stessa natura, ha sempre ovviamente rifiutato i principi assiomatici della scuola scoto-inglese di Smith e Ricardo, i cui assunti degenerarono poi nelle teorie marxiane del valore-lavoro, quali premesse alla spiegazione della formazione dei prezzi osservati. In parole molto semplici, quell’idea fallace ipotizzava che, dati i costi dei fattori produttivi, ricon-dotti a una quantità di lavoro incorporato, i prezzi in virtù dei processi di mercato ne fossero l’inevitabile derivazione comparabile e predeterminabile. Ne discende che, ancor oggi, molti credono che ogni deviazione dal prezzo “giusto” (cioè quello “oggettivo” che dovrebbe remunerare tutti i fattori produttivi, indipendentemente dai processi tecnologici, organizzativi, distributivi e promozionali delle diverse aziende in concorrenza tra loro) costituirebbe la famosa “speculazione” di cui tanto si parla in quanto frutto della manipolazione psicologica dei consumatori succubi e ignari. Rispetto a questa idea perniciosa, l’evidenza mostra invece come accada esattamente il contrario.

Sono i consumatori a determinare il prezzo per il quale a un distributore conviene nell’ordine: offrire un prodotto che ha senso produrre per un’azienda, la quale acquista i fattori produttivi (macchine e materie prime) da altre aziende che hanno interesse a venderli e ore di lavoro da esseri umani disposti a svolgere compiti produttivi. La natura psicologica e soggettiva nella formazione dei prezzi (in un libero mercato) giustifica una logica che potremmo far risalire alla prestigiosa e cinquecentesca Scuola di Salamanca, ancora di stretta attualità. La domanda che ossessiona i manager della distribuzione infatti è: “Perché, mentre io mi sforzo di comunicare che i miei prezzi sono allineati o inferiori a quelli del mio concorrente, i clienti non li notano, non li memorizzano e, se interrogati, li ricordano male?”. “Who perceives supermarket prices most validly?” si chiedeva ancora Brown nel 1971 e, ragionandoci su, constatava che ogni singolo acquirente evidenzia propri modelli di comportamento di acquisto, basati su atteggiamenti nei confronti dello shopping e caratteristiche sociodemografiche diverse dagli altri. Ma tra tutti i fattori che distorcono il processo percettivo, quali potevano essere quelli più strettamente a esso associabili?

Non v’è dubbio che i clienti valutino le alternative offerte dai punti di vendita, collocandole in diverse dimensioni, cioè formandosi opinioni che possono o non possono coincidere con la realtà, ma che, tuttavia, sono la loro realtà! Un filosofo, a questo punto, si chiederebbe cos’è la realtà? Tutto ciò che esiste indipendentemente da noi o quella che osserviamo e con cui interagiamo? Un businessman non avrebbe dubbi: “La realtà è quel che diavolo pensano i clienti della mia offerta a confronto delle altre!”. Le riflessioni più recenti ci portano allora ad affermare che, ancor prima della percezione dei prezzi, viene la loro rappresentazione. Diciamo quindi che le rappresentazioni dei prezzi sono i vari modi con cui essi sono resi disponibili ai potenziali clienti. Queste modalità possono essere verbali, come nella Vucciria o nelle televendite. Nei negozi al dettaglio, invece, i prezzi sono resi disponibili in varie forme: attraverso slim, etichette, coupon, volantini, stopper, banner, screen, vetrofanie, kakemono, totem, smartphone ecc.

Un cliente viene dunque esposto alla rappresentazione di un prezzo o di un “paniere di prodotti” o del “tutto” di un’insegna, ovvero della sua offerta complessiva, come i “Prezzi bassi e fissi” di Conad o i “Prezzi corti” di Esselunga. Cosa resta di tutto questo nella mente di ciascuno di noi? Focalizzandoci sulla rappresentazione più ampia del “tutto” dei negozi a catena e a libero servizio, possiamo dire che essa si articola lungo almeno 5 direzioni: la funzionalità, la varietà, l’emozionalità, l’eticità, il simbolismo. Semplificando, il punto di vendita “perfetto” dovrebbe essere comodo ed efficiente, esaustivo circa i miei desideri (anche inespressi) di cliente, suggestivo, accogliente, divertente, rilassante e poi eticamente corretto nei miei confronti e in quelli degli altri, ricco di simboli e di informazioni chiare che mi aiutino a fare le scelte giuste. Ovviamente, questo idealtipo non esiste, se non per pochi clienti entusiasti. Quando scriveva Brown, alla fine degli anni ’60, le forme distributive erano già molto evolute negli Usa. Oggi lo sono enormemente di più.

La molteplicità delle promozioni rende difficile fissare nella mente il prezzo di ciascun bene per confrontarlo con quello di altri retailer

Non solo la varietà dei punti di vendita è letteralmente esplosa, ma il quadro di allora, che ci sembra adesso quasi statico, vive un vorticoso dinamismo. E se a ciò aggiungiamo la recente profonda alterazione dei prezzi relativi di beni e servizi a causa di un’inflazione a due cifre, prevedibile, ma inattesa per la massa dei consumatori, assuefatti alle stimolazioni keynesian-consumistiche, il tema si complica notevolmente. Se i prezzi cambiano abbastanza velocemente, ciò rende temporanea la verosimiglianza di qualsiasi loro rappresentazione, nonostante gli sforzi di apparire la catena più economica. I singoli retailer utilizzano tecniche di differenziazione dei prezzi per clienti diversi attraverso una molteplicità di promozioni. Il che rende difficile fissare nella mente il prezzo di ciascun bene per confrontarlo con quello di altri retailer. Infine, la scelta di un insieme rappresentativo di referenze da comparare tra loro – come fanno abitualmente in Francia, Intermarché, Carrefour, Leclerc – è pressoché inutile, essendo formati, formulazione e gusti delle varie marche grandemente diversificati. Un altro aspetto fondamentale in tempi di inflazione sta nel fatto che la base di giudizio per la scelta del luogo di vendita si basa sui prezzi pagati tempo prima. Essi vengono considerati anticipatori dei prezzi futuri, di quando avverrà il nuovo acquisto. Schematicamente possiamo pensare che ogni acquisto avvenga seguendo questo processo psicologico: esiste una rappresentazione dei prezzi di ogni insegna accessibile al cliente; in base a essa il cliente formula una previsione sui prezzi che lo attendono; quindi, prende la decisione di recarsi in un determinato punto di vendita e con l’occasione procede non solo a un aggiornamento della precedente rappresentazione, ma anche a una stima probabilistica del proprio guadagno rispetto a un’alternativa più o meno analoga.

La rappresentazione dei prezzi, che potrebbe essere paragonata alla variabile di stato dei sistemi di controllo automatici, ha un carattere inerziale poiché muta solo parzialmente in funzione delle informazioni raccolte con la nuova esperienza. Nelle nostre ricerche Cx Store l’abbiamo chiamata goodwill. Nell’immaginario dei manager della distribuzione, al contrario, v’è sempre la speranza che qualche “azione di forza” possa potenziare l’immagine dell’insegna. Esselunga, per esempio, a novembre 2021 ha lanciato la campagna “Il carovita sale? Noi abbassiamo i prezzi”. La domanda è: tale campagna è servita allo scopo? I dati di Cx Store di aprile 2022 mostrano un calo dei livelli record raggiunti dall’azienda di Limito in termini di riconoscimento del miglior rapporto qualità/ prezzo. Ma questa non è una conclusione definitiva poiché ci si può chiedere: “Nel contesto caotico di quei mesi, cosa sarebbe accaduto se tale campagna non fosse stata messa in atto?”. Viceversa, la piccola catena campana Sole 365 – forse l’unica a praticare veramente la celebre edlp (every day low price) – ha rafforzato vistosamente la propria “price representation”. Conclusione. La politica dei prezzi, almeno nel largo consumo, è qualcosa che non potrà essere semplicemente affidata alla tanto celebrata “algoritmica”, poiché resterà sempre legata alla sensibilità, all’intuito, all’istinto di quel raro spirito imprenditoriale, così difficile da riprodurre.

Daniele Tirelli