I danni del caso Dieselgate non intaccano la brand equity

Il glorioso maggiolino Volkswagen ben rappresenta la capacità della casa tedesca di sopravvivere ed evolvere nel tempo, superando la fine della guerra mondiale e diventando uno dei tre grandi colossi nel mondo delle auto, con 10 milioni di autovetture vendute ogni anno. La storia fa quindi ben sperare sul superamento del Dieselgate; è nondimeno interessante analizzare la vicenda per comprendere quali suggerimenti possa darci. A settembre del 2015 la Epa, la United States Environmental Protection Agency, ha reso noto che Volkswagen aveva installato un software di manipolazione progettato per aggirare le normative ambientali. La notizia è finita velocemente sulle pagine dei giornali e sui siti web di tutto il mondo. Si è quindi determinato un immenso danno reputazionale, anche se, alla prova dei fatti, le vendite del 2015 sono state tutto sommato positive, e se pur si è registrata una flessione complessiva, questa ha riguardato paesi poco toccati dallo scandalo (Brasile e Russia in primis). In particolare, in Italia le vendite hanno registrato un + 8% sull’anno precedente. La reputazione conta o non conta, quindi, nel determinare le scelte di acquisto? L’idea che si deduce dai dati è che la reputazione conta, ma nel lungo periodo, mentre nell’immediato ha più impatto sui regulator che sul pubblico. Nello specifico, la brand equity di Volkswagen ha tenuto, l’azienda ha dimostrato di avere ancora un forte potere attrattivo sui clienti: infatti, a fronte di solo un 30% di soggetti che guarda con favore Volkswagen (era quasi l’80% prima del Dieselgate), quasi il 60% degli italiani prenderebbe oggi in considerazione l’acquisto di un’auto Vw. Com’è possibile questo risultato, all’apparenza contraddittorio? È possibile perché il Dieselgate non ha toccato il cuore della promessa a chi acquista Vw: una macchina sicura e prestazionale. Ha riguardato le emissioni e le norme di legge. Seppure la sensibilità ecologica è in aumento, non rientra ancora nei principali elementi di scelta del consumatore, anche perché circa un sesto dichiara di avere una buona conoscenza del concetto di sostenibilità, e quasi il 50% dei consumatori lo ignora; inoltre nel settore automobilistico le certificazioni ambientali contano solo per un 20% dei consumatori. Quindi, un enorme danno di reputazione che non intacchi considerevolmente la brand equity può essere tamponato. Ben altro risultato si sarebbe avuto se lo scandalo avesse riguardato le dotazioni di sicurezza. Però, attenzione: anche in quest’ambito innovazione e sostenibilità stanno andando sempre più a braccetto, come lasciano intravedere gli investimenti di Tesla (e Bmw). Nonostante la bassa rilevanza nel settore, i veri sconfitti dal Dieselgate sembrano essere proprio le certificazioni ambientali: hanno perso molta fiducia. Tali certificazioni sono note solo a circa la metà dei consumatori (53%) e appaiono ora molto meno credibili che in passato, perché facilmente aggirabili: con questa perdita di reputazione tutti dovranno fare un poco i conti, se si desidera che, oltre che ad assolvere obblighi regolatori, le certificazioni possano diventare un’importante leva di marketing e di loyalty del cliente. In un momento in cui divampa il dibattito su un’etichetta Carbon Footprint, è bene tenerlo a mente.

Andrea Alemanno