Promozioni ancora più aggressive e mirate per fronteggiare un mercato difficile

Il prevedibile scoppio della bolla economica attualmente in atto negli Usa metterà in gravi difficoltà il nostro paese e costringerà le aziende della gdo a una nuova ondata di promozioni, che rappresentano l’unico strumento per ovviare alla rigidità dei “regular price” del libero servizio

Il 22 marzo 2019 è accaduto. La curva dei rendimenti dei titoli del Tesoro americano si è invertita. Non succedeva dal 2007. E si è trattato di un segnale preoccupante che si somma ad altri, i quali convergono verso l’ipotesi di un’imminente recessione, probabilmente grave come quella avviatasi nel 2008; recessione curata negli Usa, ma tuttora debilitante per la nostra economia. Senza entrare nelle tecnicalità, va spiegato il motivo per cui i titoli a medio periodo del Tesoro americano sono arrivati a garantire meno interessi di quelli a breve periodo. Il tasso d’interesse è il prezzo richiesto per rinunciare al consumo di oggi, in cambio di un maggiore potere di spesa nel futuro. Semplice. Perché, dunque, il mercato dovrebbe essere disposto ad accettare un interesse più basso in un futuro più lontano, invece che più immediato? La risposta consiste nella supposizione che i tassi d’interesse in generale debbano diminuire. E ciò perché in un’economia basata sulla cosiddetta moneta fiat, cioè staccata da un qualunque valore materiale, la banca centrale diminuirà i tassi per sostenere il ritmo di crescita del sistema nell’evenienza di una recessione, appunto. Il finanziamento della spesa pubblica americana, nel 2018, presentava un deficit del 4% rispetto al pil, un debito di 22 trilioni di dollari e un rapporto debito/pil del 105,4% (nel 2009 era dell’82%). I mercati non credono che tutto ciò possa continuare. Le esigenze dei consumatori hanno creato, inoltre, un gigantesco disavanzo con l’estero di oltre 600 miliardi di dollari, ed ecco un altro segnale prerecessivo. Il ragionamento prosegue accennando ad altri avvisi che concorrono alla descrizione del fosco scenario atteso: l’impossibilità della Fed di sbarazzarsi rapidamente degli asset accumulati in portafoglio grazie alle operazioni di quantitative easing: ben 4 trilioni di dollari. In breve, ciò impedirà operazioni di mercato aperto analoghe al passato, salvo “monetizzare il debito”, ovvero applicare una strategia rinfacciata da sempre ai governi sudamericani, falliti più volte.

Dopo la crisi del 2009 l’economia italiana pareva aver riagganciato la dinamica di quella americana. In realtà la ripresa che aveva lasciato irrisolti i suoi problemi strutturali, sanati solo parzialmente dal governo Monti, ripiombava nella “doppia recessione a W”. Negli anni successivi il gap di produttività rispetto alle altre economie partner l’avrebbe rallentata ulteriormente, consentendole di tornare sopra l’1% annuo di crescita solo durante i governi Renzi-Gentiloni. Attualmente il divario con la crescita degli Usa è tornato ad ampliarsi.

Orbene, per tenere i conti pubblici sotto controllo ci sono solo 4 soluzioni: stampare moneta e creare inflazione, così da erodere il debito pubblico e aumentare il pil a valori correnti; vendere al pubblico nazionale e straniero titoli di stato a tassi adeguati, che però aumenterebbero ulteriormente il debito futuro; tassare di più i cittadini; tagliare brutalmente la spesa pubblica. Dunque, a fronte dell’imprevedibilità delle reazioni che susciterà lo scoppio della bolla attualmente in atto negli Usa (evento ipotizzabile per il 2020), l’economia italiana potrebbe trovarsi di fronte a una situazione simile a quella che portò alla caduta del governo Berlusconi e alla cosiddetta “stagione dei tecnici”; una vicenda in cui non entrerò. Stante le premesse, la nostra nazione, con una crescita pressoché nulla e un disavanzo tendenzialmente proiettato verso il 3%, si presenterebbe impreparata all’appuntamento. Le conseguenze non sono facili da prevedere, perché le crisi economiche sono fenomeni non lineari e matematicamente caotici che si autoalimentano. Certamente ci sarebbero una probabile, massiccia fuga di capitali, una restrizione del credito, qualche fallimento di banche non ancora risanate, un pesante calo della produzione e dei consumi, con tutti quegli effetti che ben conosciamo. Dunque, la terapia richiesta per isolare il resto d’Europa dal “contagio finanziario italiano” sarebbe, obbligatoriamente, una mistura, a piacere, tra imposta patrimoniale, aumento dell’iva, un taglio lineare della spesa pubblica e magari una tassa sulle successioni e il solito aumento delle accise. Perché ho riassunto sommariamente i tratti di questo scenario così problematico?

La ragione è semplice. Numerose ricerche micro e macro evidenziano che, attualmente, per una serie infinita di motivazioni (economiche, demografiche, comportamentali, psicologiche ecc.), i retailer della gdo italiana incontrano una crescente difficoltà a traslare l’aumento del costo del venduto ai clienti finali. Tuttavia, le recessioni non hanno mai un effetto distribuito equamente su tutti i settori, bensì asimmetrico. Sta aumentando e aumenterà la pressione competitiva di discount e category killer (che godono di un roi ben superiore a quello della distribuzione classica). Si sta modificando la ripartizione del reddito disponibile, che peraltro non crescerà. La rivoluzione digitale sta giocando anch’essa un ruolo nell’erodere rendite di posizione. I flussi d’importazione dai più lontani paesi si stanno sviluppando, grazie al grandioso fenomeno della globalizzazione.

Pertanto, il 2020 sarà terreno fertile per una nuova ondata di promozioni, più aggressive e più mirate che non in passato. Esse sono infatti, nelle loro varie forme, l’unico strumento per ovviare alla rigidità dei “regular price” del libero servizio. In un modo o nell’altro, le aziende commerciali dovranno tener conto di ciò che avviene alla produzione, al trasporto e all’importazione, e trovare il modo, attraverso una rapida ristrutturazione dei formati, di acquisire maggiore efficienza nella ritenzione della propria clientela, preda di numerosi fattori ansiogeni.

La “promozione permanente” è infatti, al di là dell’estetica e dello storytelling che l’accompagnano, una realtà innegabile. La soluzione dei “prezzi bassi tutti i giorni” è solo una variante delle tecniche di vendita. Essa funziona solo se altri praticano l’hi-low discount. Lo spirito da cherry picker, però, quando l’economia va male, si rafforza. La diagnosi è semplice: in recessione la necessità di discriminare il prezzo in base ai segmenti dei propri clienti diventa impellente. Semplificando al massimo e prendendomi il rischio di sbagliare, affermo che a cogliere i maggiori vantaggi relativi (cioè: “soffro, ma meno degli altri”) saranno aziende come il nuovo entrante Aldi, che presentandosi con store di nuovo impianto e assortimenti di marche ben note, aggiunte alle proprie marche private (giudicate di buona/ ottima fattura, se rapportate al prezzo), richiamerà con promozioni profonde un nuovo pubblico e lo farà ritornare grazie a fasce di prezzo confrontabili e fortemente aggressive. Un’altra formula alla quale arriderà il successo sarà quella del nuovo category killer Grand Frais-Banco Fresco. Il know-how cumulato nel campo dell’ortofrutta e dei prodotti freschi, la sua straordinaria efficienza logistica e il controllo della supply chain, gli conferiranno notevoli vantaggi. Nello scenario descritto si prospettano tempi ancora più duri per gli ipermercati, mentre i supermercati “a vocazione imprenditoriale” potranno rispondere e resistere grazie alla mutazione verso il servizio già in atto, ma solo là dove impareranno una serie di mestieri nuovi (o dimenticati), senza sforare le barriere dei costi eccessivi. In conclusione, ogni recessione/depressione ha sempre indotto accelerazioni nel cambiamento perenne del commercio, il quale può trarre linfa dalla crescita e dalla decrescita, dalla guerra e dalla pace. Così come la “moneta facile” di Mr. Greespan e dei suoi emuli europei, agli inizi degli anni 2000, ha indotto i “malinvestment” nella formula dei (troppo numerosi e immotivati) shopping center e ipermercati, il ciclo negativo dei prossimi anni provocherà la sua vitalistica selezione verso uno scenario commerciale che possiamo oggi solo intuire.

 

DIVERSA GESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO IN ITALIA E NEGLI USA

Le classiche soluzioni per tenere i conti pubblici sotto controllo sono diversamente attuabili in Italia rispetto agli Stati Uniti. 1) Stampare moneta e creare inflazione così da erodere il debito pubblico e aumentare il pil a valori correnti (gli Usa possono farlo, ma l’Italia no, perché Lettonia, Estonia, Olanda, Ungheria, Portogallo, Irlanda ecc., che hanno i conti più in ordine, non accetterebbero il flagello dell’inflazione e la Bce, che governa la nostra moneta unica, non lo permetterebbe). 2) Vendere al pubblico nazionale e straniero titoli di stato a tassi adeguati, che però aumenterebbero ulteriormente il debito futuro: una tecnica ampiamente praticata negli Usa, mentre in Italia i mercati finanziari non lo permettono, pena l’esplosione dello spread. 3) Tassare di più i cittadini (sarebbe la soluzione più onesta, ma ovunque difficile da mettere in pratica sia per gli Usa sia per l’Italia). 4) Tagliare brutalmente la spesa pubblica (misura che il presidente Trump si guarda bene dal prendere, mentre da noi potrebbe farlo la Troika così come avvenne per la Grecia).