Ripley’s oltre i limiti dell’immaginazione

Credeteci o no, tutto nacque dall’idea visionaria di un personaggio eclettico: Robert LeRoy Ripley, cartoonista e sagace imprenditore, con un duplice interesse per lo sport e l’antropologia. Vissuto a cavallo fra due secoli di grandi mutamenti, la sua peculiarità fu quella di stupire, stupire e ancora stupire, preferibilmente mediante l’esposizione dei più bizzarri fenomeni umani e naturali. E la sua figura fantasmatica non smette di sorprenderci ancora oggi quando, per esempio, si materializza improvvisamente come ologramma in uno dei suoi “odditorium” sparsi per il mondo. Per questo, il marketing concept dell’omonima catena commerciale non può essere ridotto a un semplice brand, ma esprime uno stile di consumo dai tratti assai precipui: Ripley’s Believe It or Not! volge sempre e comunque all’eccesso, allo stravagante, allo straordinariamente incredibile. Ma procediamo con ordine.

Believe It Or Not! si serve di edifici e strutture dalle forme a dir poco insolite per attrarre il proprio pubblico di curiosi. L’espediente estetico si traduce per esempio in un gigantesco squalo dalle fauci spalancate per accogliere i visitatori al suo interno o in un Titanic arenato nel centro cittadino.
Believe It Or Not! si serve di edifici e strutture dalle forme a dir poco insolite per attrarre il proprio pubblico di curiosi. L’espediente estetico si traduce per esempio in un gigantesco squalo dalle fauci spalancate per accogliere i visitatori al suo interno o in un Titanic arenato nel centro cittadino.

L’avventura di Ripley risale al 1918, quando da giovane vignettista iniziò a pubblicare strip ricavate da temi stravaganti, aneddoti assurdi, curiosità, storie di personaggi al limite dell’inverosimile. Assetato di stranezze, Bob le scovava in ogni angolo del mondo, con la tenacia di un cacciatore di taglie. Le scene erano raffigurate fedelmente, con cura meticolosa e indiscutibile talento, qualità che gli permise in breve tempo di sorprendere e fidelizzare un pubblico sempre più ampio. Oggi la società Ripley Entertainment è parte della conglomerata The Jim Pattison Group, con sede a Vancouver, terza fra le più grandi aziende private canadesi. Il gruppo, un gigante finanziario da quasi 8 miliardi di dollari, spazia dal settore automobilistico ai media, al packaging, alla distribuzione alimentare ed editoriale, alla finanza e naturalmente all’intrattenimento, dando lavoro a oltre 33.000 dipendenti.

Ma facciamo un altro passo indietro per tornare alla storia di questo strano retail & entertainment business. Negli anni ‘20 Ripley ampliava progressivamente la sfera delle tematiche trattate e, di pari passo, la sua popolarità, ma il vero punto di svolta nella sua carriera giunse allo scadere del decennio. Infatti, grazie alle sue doti artistiche, l’eccentrico vignettista di Santa Rosa riuscì ad attrarre l’attenzione del moloch editoriale dell’epoca, William Randolph Hearst, padrone del colosso King Features Syndicate. Il 1929 fu così l’anno dell’esordio editoriale di Believe It or Not! su 17 testate distribuite a livello internazionale. Capitalizzato il successo della sua serie fumettistica, Ripley poté pertanto compiere lo step successivo: la prima pubblicazione, sotto forma di libro/volume illustrato, della sua stravagante collezione di newspaper panel series. In seguito, dopo essersi anche fatto promotore della ratificazione, nel 1931, del celebre “The Star-Spangled Banner” quale inno ufficiale degli Usa, Ripley s’inserì abilmente nel booming degli show radiofonici con una serie di sensazionali dirette dai posti più astrusi che potesse escogitare di volta in volta (cave, paesi esotici, tane di serpenti, in volo o sott’acqua). Il gruppo Hearst, intravisto il potenziale dell’uomo, finanziò i suoi viaggi in oltre 200 paesi e finalmente, dopo la realizzazione di svariate produzioni teatrali e cortometraggi dedicati ai temi di Believe It or Not!, nel 1932 Ripley pose la pietra miliare del suo business: l’apertura del primo Odditorium a Chicago. Lo visitarono oltre 2 milioni di persone. L’eco fu enorme, grazie anche a una cassa di risonanza a base di leggende metropolitane, trucchi e trovate promozionali di ogni tipo: letti e brandine furono per esempio predisposti per visitatori (in realtà attori complici) che svenivano dinanzi alle mostruosità esposte.

La popolarità di Ripley fu amplificata ulteriormente dai trailer show in giro per gli Usa e le discussioni attorno al suo nome crebbero al punto da indurre il “New York Times” a celebrarlo come “the most popular man in America”.

Le inquietanti sculture che popolano i surreali anfratti dei musei Ripley’s evocano leggende e suggestioni remote.
Le inquietanti sculture che popolano i surreali anfratti dei musei Ripley’s evocano leggende e suggestioni remote.

Oggi Ripley Entertainment conta su un flusso annuo di oltre 12 milioni di visitatori, in 90 location di vario genere negli States e all’estero, che comprendono: Ripley’s Believe It or Not! Odditoriums, Ripley’s Aquariums, Louis Tussaud’s Waxworks, Guinness World Records Museums, Ripley’s Moving Theaters, Ripley’s Haunted Adventures, Ripley’s Mirror Mazes, Ripley’s Laser Races, Ripley’s Cargo Hold Gift Shops, Ripley’s Miniature Golf Courses, Ripley’s Super Fun Zones.

Ovviamente questa teoria di luoghi d’intrattenimento per tutti i gusti costituisce l’asse portante della source of business aziendale, ma non bisogna tralasciare la correlata produzione editoriale e cinematografica, nonché l’enorme merchandising tematizzato. Il filo conduttore è che Ripley’s è lo spazio immaginifico in cui i limiti si sgretolano e vengono meno. La fantasia subentra e si scatena. Il bene si contrappone al male, il brutto al bello, il burlesco al volgare. Notoriamente, la società moderna (im)pone mete irraggiungibili come la perfezione estetica e gli elitari, solipsistici e psicotici ideali di bellezza incessantemente predicati dallo star system. La massa sterminata di individui-consumatori che annaspa per inseguire tali chimere manifesta allora un certo gradimento per le stravaganze di un mondo dove, al contrario, tutto è rifiuto delle regole, stravolgimento, dubbio e trasgressione. Queste connotazioni di degenerazione, di estraniamento, di momentanea evasione fine a se stessa, contribuiscono quindi a rendere più bello, normale e accettabile ciò che poi si ritroverà (non senza un sospiro di sollievo) all’uscita dell’Odditorium.

Non è un caso quindi che l’altra caratteristica distintiva di questi luoghi sia un’estetica volutamente surreale, stravolta, ironicamente drammatica, sempre in bilico tra caricatura fumettistica e iperrealismo. Si tratta di un’esplicita evoluzione della programmatic o novelty o mimic architecture, nata in California e in Florida dove produsse coffee house a forma di caffettiere giganti, colossali donut, chioschi a forma di hot-dog ecc. usati come esche per il cliente in transito sulla sua auto. Anche Believe It Or Not! si serve di edifici e strutture dalle forme a dir poco insolite per attrarre il proprio pubblico di curiosi. L’espediente estetico si traduce così in un ruggente King Kong in cima a un Empire State Building crollato; in una casa sgretolata o completamente capovolta; in un’inquietante villa affondata nell’asfalto; in un Titanic arenato nel centro cittadino; in un gigantesco squalo dalle fauci spalancate per accogliere i visitatori al suo interno o ancora in un edificio settecentesco dalle pareti divelte, perennemente sul punto di crollare.

Analizzando la domanda, si è detto che essa risponde in estrema sintesi a un particolare bisogno psicologico: la curiosità quasi morbosa dei suoi fan nei confronti dell’inusuale. Inconsapevoli della sofferenza implicita nell’abnormità delle devianze poste in mostra, essi sono attratti dai simboli esasperati del cattivo gusto, dell’orrido e della volgarità. Sociologi e antropologi parlano di una probabile funzione catartica di questo piacere contemplativo. Forse è la parte istintuale della personalità umana, con il suo corollario di emozioni viscerali, a trovare, in questo modo, una risposta al senso di malessere esistenziale che da tempo sembra toccare buona parte delle classi medie americane (e non solo). Da qui il gusto per le proiezioni oniriche materializzate nelle sembianze deformi di mostri e incubi ancestrali sempre in bilico fra un malleabile senso del grottesco e una malcelata ironia. Da qui la ricerca di un momentaneo indugio nei meandri di un immaginario distorto, di uno stato psicologico teso alla stupefazione, se non alla trasgressione scandalosa dei convenzionali canoni della normalità e del buon gusto. Da qui il rovesciamento, per certi versi angosciante, dell’illusione estetica fine a se stessa, del bon ton e dell’eleganza che intridono obbligatoriamente il costume e i vari aspetti della vita quotidiana.

La proposta d’intrattenimento di Ripley’s si riconduce insomma all’eccentrica, dispersiva, ossessiva cultura dell’inusuale, dell’insensato, dell’orrido. Lo spettacolo di un’umanità stravolta è d’altronde una consuetudine destinata a riprodursi nei secoli. Popolare già nel Medioevo, conobbe poi uno dei suoi migliori interpreti in Hieronymus Bosch. Similmente, le inquietanti sculture che popolano i surreali anfratti dei musei Ripley’s evocano leggende e suggestioni remote. Dall’epoca delle settecentesche scoperte della Medicina e della Scienza sino alla Belle Époque, con la sua cornice di esposizioni universali, si è celebrato lo straordinario, il record, la singolarità ineguagliabile. In questo senso Ripley’s soddisfa la vorace curiosità per i circus freak così popolari ai tempi del Barnum & Bailey Circus: l’uomo elefante, gufo, lupo, la donna barbuta e quella con quattro gambe e via elencando gli scherzi crudeli di una genetica ancora inesplorata.

Nel caso specifico di Ripley’s, il core target è costituito soprattutto da un pubblico giovane, amante del brivido ma dimentico dell’umana compassione verso l’anormale. Chiare sono le connessioni estetiche e psicologiche con i ben noti stilemi dei film horror, della musica metal o grunge e dei fumetti pulp. Molto meno evidente è però il nesso con il divertimento familiare e infantile. Eppure, svariate attrazioni (e i relativi prodotti editoriali) sono espressamente dedicate ai bambini. Il che può farci sembrare il tutto relativamente lontano dal gusto italiano.

Si apre allora la questione dell’intellettualizzazione del piacere estetico. Chi sancisce il sentimento del bello identificandolo con il buon gusto? La capacità di trarre un piacere quasi sensuale da un’opera d’arte sarebbe frutto di una cultura superiore, in grado di coglierne il valore estetico e simbolico in via quasi esclusiva. Per tale ragione, gli intellettuali d’élite temono che il godimento estetico popolare sia affidato ai persuasori occulti e subordinato a fini commerciali, votato alla semplificazione-massificazione dei gusti piuttosto che ai loro dettami e insegnamenti. Da qui il disprezzo ostentato per realtà nazional-popolari come Believe It or Not! aventi fini di profitto e di sfruttamento commerciale.

Tuttavia, perché mai un piacere egualmente intenso non potrebbe esprimersi anche nella semplice cultura popolare? Il gusto di un’epoca storica e di una nazione è il risultato di tendenze spontanee spesso irrituali. Già nel ‘500 Giovan Battista Marino sosteneva che “la vera regola è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente e al gusto del secolo”. Troppo semplice allora sentenziare che queste espressioni dell’industria dell’intrattenimento sposano semplicemente il kitsch, recando offesa al gusto raffinato delle persone educate al bello e (soprattutto) all’intelligente. Negli Usa la barriera di sacralità a difesa delle proprie opere, così importante per i produttori di cultura alta europei, è stata da tempo azzerata dalla creatività culturalmente povera (ma di grande impatto emotivo) del variegato mondo pubblicitario e commerciale. Il tanto citato clima postmoderno ha demolito la distinzione tra generi culturali colti e popolari, mescendone le connotazioni distintive e i tratti caratteristici con un atteggiamento consapevolmente antiauratico. Ed è questa la ragione per cui Believe It or Not!, in fondo, ci sembra qualcosa di più del semplice baraccone da circo, che peraltro non si vergognerebbe nemmeno di essere.

* Presidente di Popai Italy

Alla concezione e alle ricerche necessarie per l’articolo ha contribuito Marco Tirelli

 

Daniele Tirelli