Wearable device, soltanto un altro gadget dopo le app?

I wearable device sono dispositivi (minicomputer e sensori) indossati su una parte del corpo della persona oppure integrati in vestiti o accessori, connessi solitamente con una o più app sullo smartphone: si pensi agli smartwatch (Apple Watch, Android Wear), agli smartcloth (dai fitness device come FiBit a t-shirt con sensori) e agli smartglass (dai più noti Google Glass ai Carl Zeiss Smartglass recentemente presentati al Ces). Rappresentano l’ultima evoluzione dei device mobile in un rapporto sempre più personale, intimo e immersivo con la persona, potenziando l’esperienza di fruizione dello smartphone, e sono caratterizzati per le seguenti peculiarità: persistenza, mobilità, multitasking, proattività, adattabilità e reazione a variabili di contesto. La diffusione non raggiunge ancora numeri tali per cui ogni azienda possa pensare di reputarne necessaria una qualche presenza con la propria marca, ma come spesso succede in questi casi sono i consumatori con profilo fortemente multicanale, early adopter e opinion leader che adottano tra i primi i wearable device. Quindi rappresentano un’ottima palestra per sviluppare nuovi servizi in un paradigma di “marca maggiordomo” per prevedere le evoluzioni dei consumatori nei prossimi 3-5 anni: la maggior intimità, la dimensione più piccola dello schermo (nel caso degli smartwatch) o la quasi inesistenza negli altri casi, la richiesta di interazioni immediate e spesso con comando vocale obbligano le aziende a ripensare il bouquet di servizi a valore aggiunto da offrire a quella parte di consumatori sempre più esigenti che si aspettano di semplificarsi la vita e/o avere contenuti rilevanti della propria marca nell’ottica di servizio di alto livello. Si pensi per esempio a banche che portano funzioni informative sullo smartwatch o a catene di hotel in cui lo smartwatch del cliente può diventare la card per accedere alla stanza e prenotare tutti i servizi dell’hotel o, infine, a produttori di automobili in cui l’interazione con lo smartwatch consente all’automobilista di aprire e chiudere l’auto, avviare il motore ma anche di trovarla nel caso in cui avesse dimenticato dove l’ha parcheggiata. Prima, però, di pensare di considerarli come l’ennesimo gadget su cui fare sperimentazioni, anche tenendo presente le peculiarità prima evidenziate, occorre ricordare l’insight profondo su cui sono nati, ovvero l’”health”, che va tradotto con lo stare bene e non con la salute in senso stretto che si cura con le medicine. Lo stare bene, quindi, è un bisogno molto profondo che ha mille sfaccettature e che porta l’individuo a legarsi quasi in maniera simbiotica con il device: la marca, dunque, deve entrare in questo territorio così intimo e profondo su cui non c’è spazio per tutti, ma solo per quelle marche che lavorano in coerenza con i propri valori e il percepito dei consumatori. Nessun settore è escluso, anche il largo consumo e il retail: si pensi per esempio a Walgreens, che ha arricchito il suo programma fedeltà consentendo la sincronizzazione con diverse fitness app, in modo che il cliente possa guadagnare premi attraverso meccanismi di gamification nello svolgimento di attività salutari. 

Andrea Boaretto