CRESCERE IN TEMPO DI CRISIStrategico misurare il contributo della fedeltà al conto economico

Redazione17/09/2013

Il 25 ottobre prossimo l’Università di Parma ospiterà la tredicesima edizione del convegno dell’Osservatorio Fedeltà, dedicato a “Crescere con la fedeltà in tempo di crisi” e sostenuto da Catalina Marketing e Promotion Magazine. Come di consueto, verrà tracciato lo scenario internazionale della loyalty, da cui trarre lezioni per le prospettive della fidelizzazione nel nostro paese. In questo articolo anticipiamo alcuni dei dati che discuteremo in quella sede.

Negli Usa il numero di iscritti a programmi loyalty ha continuato a crescere, pur se a ritmi inferiori, anche nel periodo della crisi finanziaria 2008-2010, e oggi prosegue a ritmo sostenuto. In Canada, invece, dove la crescita è sempre stata più lenta, negli ultimi anni si registra un calo dell’1%: una situazione che sembra plafonata. Il Canada è un mercato più maturo, dal punto di vista della loyalty: qui, come nel Regno Unito, il 90% dei consumatori è iscritto a un programma, contro il 74% degli Usa o, per confronto, il 40% dell’India. Quasi tutta la popolazione partecipa a qualche sorta di programma; tuttavia il numero medio di programmi per famiglia è molto al di sotto dei 22 registrati in media negli Stati Uniti.

Le famiglie americane sono iscritte a un numero molto elevato di programmi, che continua a crescere, anche se poi la partecipazione attiva riguarda solo la metà di essi. In Canada, invece, da oltre 5 anni la situazione è stabile: la famiglia canadese partecipa a circa 8 programmi. Due situazioni interessanti, quindi: un mercato affollato che continua a crescere e uno che presenterebbe ancora margini e che invece si è fermato. Quali possono essere le ragioni? Cosa c’insegnano? I programmi loyalty sono nati prima in Usa, sono presenti in un vasto numero di settori, hanno fortemente spinto sugli incentivi di tipo hard, ovvero sconti e prezzi differenziati, spesso iscrivono le persone “d’ufficio” (ti vedi recapitare la carta a casa), di conseguenza i consumatori sono facilmente reclutati e i numeri dei database crescono. In Canada vi è un forte grado di omogeneità tra i programmi; sono presenti due coalizioni importanti, Air Miles e Aeroplan, che operano trasversalmente tra settori e possono aver ridotto l’interesse alla partecipazione a programmi di tipo “stand alone”; inoltre, storicamente i canadesi sono sensibili per quanto riguarda l’uso dei dati personali. La mancanza di “excitement” verso programmi che, seppur raccogliendo dati personali, non propongono nulla d’interessante è rivelata dal dato molto modesto di consumatori che dichiarano che le comunicazioni ricevute dal proprio programma fedeltà sono rilevanti: il 20%, secondo Colloquy (in Usa è il 30%).

Quanto sia importante, per mantenere ingaggiati i clienti, fare uso dei dati sui loro comportamenti e atteggiamenti per rendere personale la comunicazione è stato ribadito in molte sedi: l’evidenza più recente è una ricerca del gruppo Maritz, che indica la correlazione tra percezione di rilevanza della comunicazione e soddisfazione nei confronti del programma. Le imprese quindi, in Usa come in Canada, a fronte del crescente affollamento e maturità dello scenario loyalty, possono avere successo se investono nell’impiego dei dati di cliente. I casi di successo di quest’anno, Loblaw nei supermercati, Balance Rewards di Walgreen’s per le farmacie e Plum Rewards per le librerie hanno questo comune denominatore.

Sappiamo che è difficile, ancor di più in tempo di crisi, persuadere il management all’investimento negli strumenti e nelle risorse umane necessarie allo sfruttamento della customer insight, e anche alla più semplice modifica dei programmi per inserire elementi di personalizzazione. Abbiamo sostenuto in più occasioni che una via per orientare l’azienda al loyalty marketing basato sui dati è misurare il contributo della fedeltà ai suoi risultati economici. Mostrare al management il contributo della fedeltà alla crescita dell’impresa tramite la realizzazione di opportune misure dovrebbe essere un esercizio centrale del gruppo che si occupa di loyalty in azienda. Negli ultimi vent’anni sono state introdotte numerose misure di fedeltà, e la prassi di realizzarle regolarmente è oramai diffusa, come emerge dalle ricerche del nostro Osservatorio. Per lo più esse vengono seguite nel tempo e utilizzate come “barometro”. È necessario ora fare un passo in più e cercare quelle che predicono meglio la crescita del proprio business o, più precisamente, l’indicatore di crescita che l’azienda ritiene più significativo, dalla quota di mercato al margine ad altro ancora. La ricerca scientifica ha dimostrato che esistono diverse misure ottime, ciascuna più adatta a seconda dell’indicatore di performance che si vuole predire, ma nessuna formula magica dalle capacità predittive superiori in ogni circostanza. A metà degli anni ’80 sono state introdotte le prime metodologie “orientate all’esperienza del cliente”, tra le quali il Servqual, che era però difficile da realizzare. Poi negli anni ’90 l’attenzione si è spostata sulla retention e sulla misura di livelli elevati di soddisfazione, il cosiddetto “delight”. Il nesso tra soddisfazione e performance aziendale però non è lineare e questo ha portato negli anni 2000 a cercare risposte in un altro ambito, quello del passaparola, con l’introduzione del Net Promoter Score. Recentemente diversi studi hanno ridimensionato l’importanza di questa ultima misura, soprattutto se proposta come sostitutiva di tutte le altre.

Ciò rende più difficile per l’azienda affrontare la questione e obbliga a una riflessione oculata sul compromesso accettabile tra semplicità da un lato e accuratezza dall’altro. In un’era in cui l’esplosione dei Big Data può indurre a pensare di dover raccogliere tutto e misurare tutto, la scelta ragionata delle poche misure importanti e, di conseguenza, delle poche tipologie di dati veramente importanti su cui investire, è più importante che mai.

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