Avete mai provato a imbattervi nelle frequently asked questions?

Le aziende curano davvero la relazione con i loro clienti? È sparita la cassetta dei reclami (e pensare che era nata come cassetta dei suggerimenti!) non tanto perché tutto fluisce online, ma più prosaicamente perché nemmeno nell’area digitale ci si occupa e preoccupa più di cogliere i segnali di insoddisfazione, né tanto meno di gestirli.

Si sta facendo strada l’idea (tutta da provare) che tanto tutto passa via velocemente e le proteste non sono poi così virali e non portano a gravi conseguenze. Davvero? Avete mai provato a imbattervi nelle frequently asked questions? Sono l’innesco perfetto per conflitti. Molte aziende pensano di risparmiare sul personale offrendo nel sito la pagina faq. È una sorta di fai da te che finisce per essere un rompicapo perché chi ha pensato la domanda e ha dato una risposta non è il cliente in carne e ossa. Il quale non ha nessuna voglia di leggersi tutta la lista delle domande per capire se il suo caso rientra, o si può adattare a quanto esposto.

Che dire poi del “chiedi agli altri utenti”? Che competenza hanno per ergersi al ruolo di risolutori? Se poi fanno danni, chi ne risponde? Se nella sezione faq ci sono così tante domande e risposte, perché l’azienda non sistema il prodotto/servizio in modo che nessuno si trovi nella situazione di chiedere aiuto?

L’utilizzo delle faq parte dalla considerazione che i clienti possono essere guidati a risolvere il problemi da soli. Ma i clienti non sono tutti uguali, anzi ognuno si crede unico e chiede attenzione e assistenza dedicata. A tutti gli effetti chiede un vero servizio. Il fai da te può andar bene al supermercato per prendere dagli scaffali i prodotti e metterli nel carrello, ma non funziona nell’home banking, nella telefonia e in molti altri settori dove c’è una qualche complessità da risolvere.

Dall’insoddisfazione all’attrito al conflitto il passo è fulmineo. Spesso viene da pensare che i bisogni e i desideri dei clienti sono inversamente proporzionali alla volontà dell’azienda di capirli e trovare soluzioni. Come si può pensare che un consumatore irritato e perso in un problema, che gli sta interrompendo un’attività, abbia voglia di cercarsi da solo la soluzione in un labirinto di domande e risposte?

Molte aziende sono ancora all’anno zero della conoscenza del cliente e quel che preoccupa di più è che non hanno compreso la situazione. Non ci sono più utenti o clienti locked-in perché mancano alternative, anzi c’è una sovrabbondanza di offerta, che induce a ripensare totalmente l’architettura del rapporto con i clienti.
Il servizio di customer care, se il termine “cura” ha veramente senso per l’azienda e vuole coincidere con quel che il consumatore si aspetta, deve essere in grado di rimuovere tutti quei punti d’attrito che, se non curati, diventano la causa scatenante di conflitti.

Andrea Demodena, direttore responsabile ademodena@promotionmagazine.it @andreademodena

 

Andrea Demodena

Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.