I costi occulti dell’invenduto

Se sui bilanci della grande distribuzione pesano le differenze inventariali (prodotti rubati, confezioni rotte, surgelati invendibili per guasto all’impianto di refrigerazione ecc.), che però sono ben documentate e molto si sta facendo per prevenire o porvi rimedio (fra cui video sorveglianza, monitoraggio dei processi logistici, soluzioni ict), c’è un altro aspetto che pesa negativamente sui rendimenti economici ed è poco considerato: l’invenduto.

Si dà per scontato che i mercati siano in eccesso di offerta. Le private label assomigliano ai prodotti della marca d’industria e viceversa. Referenze ormai indistinguibili se non per la confezione che riporta loghi differenti, ma nella mente del consumatore tutto si affastella e si elide. Beni di largo consumo con scale di prezzo ormai infinitesime e rese confuse da ribassi forzati. Più che un cliente con difficoltà economiche da aiutare con offerte di prezzo affinché si porti a casa una certa quantità di merci, ormai ci si trova di fronte a persone che a casa hanno l’impossibilità oggettiva di stoccaggio dei prodotti e una capacità di consumo arrivata al limite dell’accettazione. Si è scambiato il tanto con il troppo. L’eccesso di offerta di prodotti è contestuale alla crescita enorme dei canali di approvvigionamento, che segnano la fine del ricorso alla gdo come unico one-stop shop.

L’invenduto, ciò che giace inesorabilmente abbandonato sugli scaffali, ma anche quel che sempre più lentamente li lascia inceppando la rotazione, sta diventando un costo molto pesante. In primo luogo per l’ambiente, poiché si tratta di prodotti che rischiano di finire malamente in discarica e, anche quando vengono donati a enti non-profit, costituiscono comunque una perdita economica. Che ne è della capacità della grande distribuzione di mettere a punto l’offerta ottimale in tutte le sue dimensioni, combinando prodotti di marca d’industria e a marca propria, formati, ampiezza e profondità, politiche di prezzo chiare? La gdo sa ancora intercettare tendenze, stimolare la curiosità, proporre novità effettive? Ormai si è replicato all’infinito lo schema del free-from, rich-in, localismo, prescrizioni religiose, etnico e via di seguito.

Così si procede con migliaia di nuove referenze che entrano e rendono ai consumatori sempre più complessa la scelta. Non è certo questo che le persone percepiscono come servizio. Così, rifacendoci alla matrice Bcg, il segmento “dog” si sta generalizzando e fagocita tutto. L’industria di marca investe nella fidelizzazione dei clienti ai propri brand con promozioni creative e premianti, la grande distribuzione propone schemi di loyalty. Investimenti che si disperdono quando la sovrabbondanza penalizza la scelta, la preferenza, la relazione. Il tutto finisce in un corto circuito quando la gdo chiede contributi alle aziende di marca per fare promozioni di prezzo nel tentativo di smuovere le vendite. Ossia come incenerire in un attimo notorietà di brand, fedeltà alla marca, fiducia nell’insegna.

Andrea Demodena

Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.