Al di là dei numeri comunque spaventosi che ci comunicano i media dalla Striscia di Gaza, oltre al tormento delle armi, in quel luogo incombe lo spettro della fame e della malnutrizione. Contemporaneamente sui nostri schermi scorrono spot televisivi che chiedono solidarietà per fornire “pasti proteici” ai piccoli denutriti dell’Africa, a cui si aggiungono notizie sulla povertà assoluta di parte degli italiani che devono sacrificare un’alimentazione adeguata.
Curiosamente, ma non più di tanto, se nelle società occidentali si parla continuamente di fame, si diffonde anche un fenomeno opposto e per alcuni inquietante. Parlo dell’ortoressia, quell’ossessione patologica per il cibo sano e pulito, scaturita dall’ipocondria digitale, antitesi della trasgressione dell’appetito, un tempo peccaminosamente inteso come gola.
Della fame da guerra e povertà, le cause sono chiare, ma le soluzioni astrattamente semplici della pace e dello sviluppo economico restano apparentemente inattuabili. Ben più complesse sono invece le origini dell’ossessione e della preoccupazione eccessiva circa la correlazione tra le proprietà degli alimenti e la propria salute.
Ciò induce a riflettere su questo mondo duale che ha come tratto comune la sopravvivenza: in una sfera brutalmente materiale da un lato, in una sfera psichica forsanche onirica, dall’altro.
Mary Douglas si dedicò allo studio antropologico dello sporco e dell’insalubre, concetti basilari per capire l’ordinamento che certe culture cercano di difendere. Proprio così: pulizia e purezza non come categorie neutre, ma espressioni di un sistema simbolico di classificazione sociale. Lo sporco e l’impuro rappresentano elementi ambigui che minano il sistema di valori e dunque l’orientamento dell’individuo nel contesto sociale e nella propria esistenza.
Ebbene, chi è preda dell’ortoressia manifesta comportamenti comuni documentati dalla ricerca scientifica: il 78% pianifica meticolosamente i propri pasti, il 76% evita gli appuntamenti e il 72% rinuncia alle uscite con gli amici. L’ortoressico è perfettamente in grado di passare il proprio fine settimana a cucinare verdure per i giorni seguenti, calcolando al milligrammo le dosi e le combinazioni per pranzi, cene e colazioni.
Contemporaneamente, a Gaza le famiglie tritano la pasta e il riso e le lenticchie per ottenere una sorta di farina, ricorrono all’acqua del mare e si dice che ci sia anche chi si riduce a mangiare uccelli, foglie d’alberi, erba e persino i resti di cibo già attaccati dai topi.
L’ortoressico spende più di tre ore al giorno pensando al cibo. Rinnegando la sua natura di onnivoro, lo seleziona più per i benefici sulla salute che per il gusto. Si sente in colpa qualora deroghi dalla dieta abituale e si ritiene padrone di se stesso solo mangiando nel modo ritenuto corretto. Soprattutto resta ostinatamente negazionista delle conseguenze fisiologiche derivanti da un apporto squilibrato dei diversi preziosi nutrienti.
A Gaza, il tempo viene speso percorrendo a piedi lunghe distanze poiché i precedenti 400 punti di distribuzione sparpagliati nella Striscia son divenuti soltanto quattro. Ciò significa che le persone alla famelica ricerca di cibo corrono il rischio di essere uccise nelle kill zones, accettando una roulette russa quotidiana.
Due mondi attanagliati dalla paura: primordiale, feroce, viscerale a Gaza; ansiogena, fantasmatica, intellettualizzata quella dell’ortoressico. Due mondi motivati dalla sopravvivenza: animalesca, primordiale, disperata a Gaza; redentrice, catartica, compulsiva nell’ambiente post-consumista e iperconnesso dell’ortoressico.
E a questo punto, con scandalosa atarassia sociologica, congiungo i due casi riconducendoli alla dimensione sociale del cibo. Mentre a Gaza le famiglie ripartiscono rimasugli e reperti alimentari in un atto estremo di condivisione, nel nostro mondo la cyber-ipocondria rende l’ortoressia più o meno acuta: il cibo diventa fonte di ansia, di controllo ossessivo, di isolamento dai momenti conviviali.
I social media ci danno l’illusione di avere molte scelte. In realtà ci limitano a quelle poche che gli algoritmi vogliono farci vedere, scrisse Eli Pariser, grande esperto in materia; creano bolle informative personalizzate che sembrano offrirci conoscenze alternative al sapere scientifico, bolle che in realtà rafforzano soltanto le nostre ossessioni.
Dunque, mentre scorrono sotto i nostri occhi opacizzati, adusi a guardare senza vedere, le immagini di cumuli di bambini con la mano tesa a protendere la ciotola, mi trovo a immaginare un Roland Barthes redivivo, per il quale l’ortoressia rappresenterebbe soltanto la naturalizzazione dell’ansia borghese. La sovrabbondanza alimentare, la raffinatezza tecno-industriale sembrano allora dover perseguire un grado zero dell’alimentazione e produrre un alimento senza conservanti, senza edulcoranti, senza additivi, senza grassi, senza calorie, senza… Talmente puro, talmente pulito da diventare cibo solipsista: senza cultura, senza storia, senza contaminazioni sociali.