Engagement, i touchpoint più efficacy lungo il customer journey

Customer journey concept, marketing and customer behavior analysis, Understanding customer journey to improve their overall customer experience and increase loyalty, Marketing strategic planning.

Al giorno d’oggi, uno degli imperativi per le imprese, indipendentemente dal settore in cui operano, è quello di creare engagement con i propri consumatori. Anche la letteratura accademica, infatti, ci conferma che l’engagement – definito formalmente come “uno stato mentale che deriva da esperienze di tipo cognitivo, emotivo o comportamentale di interazione attiva con il brand” (Brodie et al., 2011) – è un driver di soddisfazione, retention e fidelizzazione. Con l’obiettivo di ingaggiare in una relazione continuativa i propri clienti, le aziende si trovano pertanto a presidiare numerosi touchpoint, fisici e digitali, collocati lungo il customer journey, cercando di offrire un’esperienza quanto più possibile coinvolgente.

In tal senso, tanto le aziende quanto la letteratura accademica si stanno interrogando su quali siano i touchpoint maggiormente utili a generare engagement in ciascuna delle diverse fasi del customer journey e come sia possibile ottimizzarne le qualità. Per esempio, uno studio condotto nel 2021 da Lena Steinhoff – che vi abbiamo già raccontato nel nostro precedente articolo – ha evidenziato come il programma fedeltà abbia il potenziale di generare engagement per i membri lungo tutto il journey, dalla fase di ricerca delle informazioni al post-acquisto. Altri touchpoint, invece, risultano particolarmente efficaci in una specifica fase.

Nel 2022, gli studiosi Pizzutti, GonÇalves e Ferreira, hanno voluto indagare su come la ricerca di informazioni influenzi non solo la fase di pre-acquisto ma anche quella successiva all’acquisto, e quanto questo fenomeno differisca rispetto ai touchpoint che vengono utilizzati dal consumatore. Lo studio ha coinvolto 39 partecipanti in più round di interviste qualitative e 200 consumatori in un’analisi quantitativa longitudinale, seguendoli durante tutto il processo di acquisto. I risultati mostrano come la ricerca di informazioni post-acquisto viene fatta soprattutto online, su motori di ricerca e social media, senza ricorrere ai propri contatti diretti; inoltre, i consumatori cercano principalmente touchpoint gestiti da altri consumatori piuttosto che rivolgersi alle fonti del brand. Il modello quantitativo, che conferma anche l’esistenza di una relazione tra ricerca di informazioni post-acquisto ed engagement, identifica come touchpoint che influenzano positivamente tale relazione, e che quindi è consigliabile presidiare quanto più possibile, 3 touchpoint del brand (social media, sito web e media tradizionali come televisione e affissioni) e 5 touchpoint gestiti da terzi (video Youtube di utenti o influencer, non ads, recensioni, forum online dedicati, motori di ricerca, osservazione di altri consumatori).

Sono molto interessanti anche i risultati relativi alle motivazioni per le quali i consumatori raccolgono ulteriori informazioni dopo aver acquistato un prodotto. Dalle interviste, emerge che tali motivazioni sono molteplici: si ricerca una rassicurazione in merito all’acquisto effettuato, per calmare le proprie ansie o incertezze; si cerca di massimizzare il proprio acquisto, comprendendone al meglio tutte le potenzialità oppure anticipando l’esperienza che si vivrà utilizzandolo; e, infine, si vuole soddisfare una propria curiosità cercando nuove informazioni che ci sorprendano positivamente. Lo studio quantitativo dimostra come proprio quest’ultima motivazione, seguita dalla volontà di essere rassicurati, risulti avere un effetto significativo e positivo sull’engagement. In altre parole, chi cerca per curiosità o per rassicurarsi viene maggiormente ingaggiato una volta raccolte le informazioni. E ciò propone non pochi spunti, in termini di informazioni e tone of voice, utili al fine di creare comunicazioni o funzionalità ad hoc rivolte a chi ha già acquistato un prodotto o servizio. Rimanendo su questo tema, ma spostandoci a monte verso la fase di pre-acquisto, troviamo uno studio molto interessante (Wang, Lu, Shi, Does customer email engagement improve profitability? Evidence from a field experiment in subscription service retailing. Manufacturing & Service Operations Management, 2022) che ha voluto indagare e misurare non solo l’efficacia delle comunicazioni informative via email rivolte al consumatore, ma anche la loro profittabilità.

Lo studio, di natura sperimentale, è stato svolto sul campo, coinvolgendo un provider di servizi, nello specifico una catena di stazioni di servizio e autolavaggi operante sul territorio statunitense. L’azienda opera secondo un modello ad abbonamento, offrendo ai propri clienti tre pacchetti alternativi di servizi in abbonamento con una fee mensile differente: livello base (15 dollari), livello intermedio (25 dollari) e livello alto (35 dollari). L’abbonamento dà accesso a un utilizzo senza limiti dei servizi disponibili nel pacchetto prescelto, utilizzo che l’azienda riesce a monitorare tramite uno sticker rfid posizionato sull’auto di ciascun cliente. Oltre 4.000 clienti sono stati coinvolti nello studio, scelti tra i nuovi clienti dell’azienda al momento dell’indagine e comparabili per numero di visite alle stazioni di servizio, utilizzo dei servizi offerti, e per ripartizione in percentuale tra i tre livelli di abbonamento. Di questi, il 60% è stato assegnato al gruppo sperimentale mentre il restante 40% al gruppo di controllo.

L’esperimento prevedeva l’invio di comunicazioni via mail ogni 15 giorni: nel primo mese, entrambi i gruppi hanno ricevuto comunicazioni generiche, mentre nel secondo mese, i soli partecipanti al gruppo sperimentale hanno ricevuto le email della campagna creata appositamente per lo studio, che evidenziavano i vantaggi del livello di abbonamento sottoscritto. Nei successivi quattro mesi, nessuno dei gruppi ha più ricevuto ulteriori comunicazioni e ci si è limitati a monitorare il loro comportamento. I risultati evidenziano in primo luogo come l’invio delle email mirate ha migliorato sia la retention sia il consumo dei servizi: infatti, il gruppo sottoposto al trattamento ha una probabilità di churn inferiore del 26,3% rispetto al gruppo di controllo, e utilizza i servizi per il 7% in più, su base mensile.

Lo spaccato dei risultati rispetto a diversi segmenti di cliente porta poi alla luce alcune differenze molto interessanti; i ricercatori si sono concentrati, nello specifico, sui clienti iscritti ai tre livelli di abbonamento e sui clienti con alta vs. bassa frequenza di uso dei servizi (il dettaglio è riportato nella figura nella pagina precedente). Per quanto riguarda la retention, i ricercatori hanno trovato che la probabilità di churn si riduce molto per i clienti con alta frequenza di acquisto (35,3% contro una media del 26,3%) e per gli iscritti all’abbonamento di livello più alto (40,7%). Ingaggiare i clienti attraverso le email risulta, pertanto, particolarmente efficace in termini di retention per i clienti con elevata frequenza e spesa. Per quanto riguarda invece l’utilizzo, troviamo un trend differente: l’utilizzo dei servizi aumenta in modo particolare per gli utilizzatori non frequenti (13%) e per gli iscritti al livello di abbonamento base (14,7%). Se quest’ultimo dato, a una prima occhiata, sembra molto positivo, a uno sguardo più approfondito permette di individuare anche dei lati oscuri.

I ricercatori hanno infatti incrociato questi effetti, all’interno di un modello matematico, con i dati relativi al customer lifetime value e ai costi operativi del servizio: da questa analisi emerge che l’email riesce a fare aumentare il profitto nei segmenti degli abbonati al livello più alto e gli abbonati al livello medio che usano i servizi solo occasionalmente. Al contrario, fa diminuire il profitto per gli abbonati al livello base e per gli abbonati al livello medio con alta frequenza. Lo studio mostra pertanto come l’utilizzo delle email per ingaggiare i propri clienti possa essere un’arma a doppio taglio. Da una parte, permette di incrementare la retention e prevenire il churn, soprattutto da parte dei clienti più frequenti e alto-spendenti. Dall’altra, incrementa la frequenza di utilizzo, che, in certi casi, significa un aumento dei costi operativi. Risultati, questi, che ci confermano quanto sia necessario non limitarsi a misurare l’engagement ottenuto attraverso ogni singolo touchpoint ma riportare tali metriche a una prospettiva più ampia.

Giada Salvietti