Mappare la loyalty, un sentimento individuale, multidimensionale, dinamico e…

Marilde Motta24/09/2025

Di cosa si parlava nel salon littéraire di Madeleine de Scudéry verso la metà del Seicento? Le discussioni si animavano attorno al tendre (il cuore) e alla carte de tendre, una mappa allegorica che pone su un piano i percorsi irti di ostacoli e punteggiati di buoni propositi per giungere al cuore dell’amato o dell’amata. Oggi le aziende e i retailer tentano di conquistare il cuore, ma anche la mente dei clienti (e potenziali tali) poiché entrambi servono da grimaldello per aprire il portafogli e generare acquisti di beni e servizi.

SOMMARIO

Sviluppare un percorso della loyalty

Se l’atto di acquisto è l’aspetto che meglio soddisfa gli sforzi delle aziende in ottica di bilancio, non basta e va sempre visto in relazione a:

  • comportamenti e sentimenti come la loyalty (behavioral o attitudinal che sia);
  • oggettiva soddisfazione per quanto riguarda aspetti di performance e qualità del prodotto o del servizio, esperienze promesse e effettivamente erogate al livello atteso;
  • una predisposizione che porta a esercitare una preferenza verso una data marca (che si fa garante di un prodotto/servizio e in cui ci si identifica) e il ruolo del desiderio come fattore discriminante;
  • disponibilità di touchpoint, canali, soluzioni efficienti per relazionarsi con l’azienda e i brand (ossia disponibilità di una rete di strumenti per dialogare);
  • azioni e interazioni on/offline che preservano la marca dall’entropia (fenomeno che si verifica quando interesse, affezione e altri sentimenti positivi che i clienti dedicano al brand vengono meno);
  • diversi attori (il sistema di retail scelto dall’azienda per portare i propri prodotti/servizi sul mercato, i competitor diretti e indiretti ecc.) nonché situazioni contingenti di mercato e moltissimi altri fattori.

Sviluppare una mappa della loyalty, in relazione alla marca d’industria, o all’insegna del retailer, nel largo consumo richiede di prendere in considerazione precursori, iniziatori, mediatori, facilitatori, rafforzatori, confermatori, nonché tutto il sistema di touchpoint fisici e digitali, i dipendenti dell’azienda con cui a vario titolo il cliente si interfaccia, i media, gli strumenti, le tipologie di esperienze e di relazioni, in pratica tutto quello che serve per disegnare percorsi, punti di ancoraggio, mete verso cui puntare, ponti da costruire, traguardi da varcare. Il tutto avendo ben presente da dove si parte per arrivare alla loyalty ossia: azienda (sia essa industriale o del settore dei servizi); brand platform; la categoria di prodotti/servizi offerti.

Se in questo articolo prendiamo in considerazione essenzialmente il largo consumo (e il suo tipico sistema di retail), va comunque considerato che la stessa persona ricerca e acquista una vastissima tipologia di beni e servizi utilizzando canali on/offline, ha quindi modo di fare esperienze multiple con:

  • beni di marche intercambiabili a basso coinvolgimento di spesa e psicologico;
  • beni ad alto coinvolgimento ossia che richiedono una scelta ponderata per evitare una perdita di denaro e/o di prestigio giacché gli aspetti psicologici e identitari sono profondamente coinvolti (in questo contesto la marca e il rapporto fiduciario hanno un ruolo importante);
  • prodotti dei retailer ossia private label food e non-food (sia che si siano già costituiti in marca riconosciuta e preferita sia che si distinguano da altri prodotti solo per il logo del retailer);
  • prodotti unbranded e commodity che propongono comunque benefici pratici e valori immateriali (spesso legati al lifestyle di tipo frugale, scelte volutamente alternative ai prodotti di marca e non condizionate da basso potere di acquisto, ma appunto collegate a ideologie).

L’atto di acquisto è una delle tante fasi di passaggio che avranno influenza sulla loyalty, così come la prova del prodotto stesso e il livello di soddisfazione ottenuto, i percorsi sia mentali sia fisici fatti per arrivare al prodotto e al brand (un journey dove materiale e digitale convergono, si sovrappongono e talvolta confliggono con divergenti conseguenze sulla loyalty stessa, un journey che non è mai lineare), l’esibizione del prodotto nel proprio contesto sociale. Ribadiamo che la loyalty qui presa in considerazione è quella verso un’azienda e il suo sistema di marche nel largo consumo e/o verso un retailer (e relativa offerta di marche proprie e altre). La loyalty, in quanto sentimento ha caratteristiche proprie, va però vista nei contesti in cui opera, da cui discendono differenze talvolta sostanziali anche per quanto riguarda le modalità di suscitarla e gestirla. La loyalty è il punto di arrivo di un percorso individuale ed è di due macro tipi: behavioral loyalty e attitudinal loyalty.

Behavioral loyalty, la fedeltà comportamentale

Con fedeltà comportamentale intendiamo un sentimento, uno stato d’animo che si genera sull’asse dove si incontrano commitment (impegno, dedizione, competenza da parte dell’azienda nella formulazione di prodotti/servizi, ma anche credibilità e eticità del suo brand che firma i prodotti/servizi) e trust (la fiducia profusa dal consumatore, fiducia a sua volta generata da diversi fattori). L’azienda opera in chiave di customer satisfaction con prodotti e servizi che offrono benefici tangibili e intangibili al livello di qualità atteso dai consumatori per soddisfare bisogni e desideri. Non solo, l’azienda ha comportamenti coerenti con la propria identità e purpose che sono significativi per il suo target di riferimento. I clienti rispondono accordando fiducia (trust) all’azienda, ai suoi brand e ai prodotti/servizi, attivando quindi una fedeltà funzionale sia agli acquisti di prodotti/servizi (ripetuti in modo più o meno frequente e costante) sia relativa all’adesione all’identità del brand (che in qualche modo soddisfa la personalità del consumatore).

La loyalty di tipo comportamentale è attribuita ad alcune marche/aziende per ogni categoria di prodotto/servizio di cui le persone hanno necessità o desiderio di annoverare nel proprio lifestyle (si considera che mediamente ogni persona abbia 3/5 marche di riferimento, ritenute intercambiabili, per ogni categoria di prodotto nonché abbia 3/4 diverse fonti di approvvigionamento per ogni prodotto). È quindi anche una fedeltà plurima (attribuita a diverse aziende e marche) e parcellizzata (suddivisa in una infinità di situazioni in cui c’è un possibile richiamo a esercitarla). Il termine comportamentale indica chiaramente situazioni e circostanze (talvolta anche persone e altri elementi che interferiscono) che esercitano un’influenza su opinioni e convincimenti che portano ad azioni. Spesso si tratta di comportamenti opportunistici dettati da stimoli artificiali (come vedremo si tratterà soprattutto di quelli annoverati fra i rafforzatori). È una fedeltà che subisce oscillazioni contingenti dovute tanto a situazione di mercato, a mosse intraprese dalle altre marche concorrenti quanto a diversi altri fattori (come anche correnti e mode del momento, comportamenti della community di riferimento, situazione economica contingente ecc.).

Attitudinal loyalty

Per questo tipo di loyalty utilizziamo il termine lealtà (che ha una storia semantica diversa da fedeltà), in particolare va intesa come obbligazione liberamente assunta, un impegno profondamente sentito. Con lealtà si entra in un’altra dimensione del rapporto delle persone con le marche (nonché aziende/retailer). Le persone esprimono verso alcune marche un atteggiamento spontaneo intriso di affetto e di impegno formale e continuativo a preferirle in esclusiva giacché si rispecchiano nei significati, nel valore, nello stile proposto solo da queste e da queste ricevono una sorta di investitura in termini di distinzione (il riferimento è all’opera del sociologo Pierre Bourdieu “La distinction. Critique sociale du jugement”). Per definire l’intensità di questo sentimento ricorro all’analogia con l’investitura e il giuramento di fedeltà dei cavalieri medioevali che in cambio ricevevano benefici tangibili e intangibili. La lealtà attua una sorta di fusione della persona con il brand per questo è meno facile da condizionare, la marca scelta rappresenta per il consumatore la sua stessa identità, diventa parte integrante della sua personalità, del suo modo di esprimersi, del suo modo di segnalare la propria presenza nel contesto sociale; la persona stabilisce con essa un vincolo di appartenenza che esclude altre marche. Sono coinvolti sentimenti così forti che la persona potrebbe rinunciare all’acquisto piuttosto che cadere nel “conflitto di lealtà” (un sentimento negativo dovuto all’acquisto di un’altra marca, che genera un senso di colpa, di perdita, d’insoddisfazione).

Se la loyalty (comportamentale o attitudinale) è il punto di arrivo di un percorso questo non è lineare né consecutivo in termini fisici e temporali. Ogni persona attua un itinerario strettamente individuale per arrivare a provare una forma di attaccamento verso una marca o un’azienda, però va precisato che ci sono persone che non riescono ad esprimere forme di affettività verso la marca, né gradiscono i tentativi dell’azienda di stabilire un legame. Come emerge in diverse ricerche (cito l’articolo “Decoding customer-firm relationships: how attachment styles help explain customers’ preferences for closeness, repurchase intentions, and changes in relationship breadth” di M. Mende, R. N. Bolton, M. Jo Bitner pubblicato nel 2013 sul Journal of Marketing Research), il comportamento umano è quanto mai variegato e vi sono persone che si tengono lontane da relazioni emotivamente coinvolgenti anche quando si tratta di aziende e delle loro marche, prodotti o servizi (si veda anche l’articolo “An assessment of attachment style measures in marketing” di M. E. David, K Carter, C Alvarez, pubblicato nel 2020 nell’European Journal of Marketing che identifica 7 diversi stili di attaccamento, fra cui i tipi anxious e avoidant sono poco o nulla coinvolgibili in attività di relazione con la marca), su questo tema si veda anche “Attachment-aversion model of customer-brand relationship” di J. Whan Park A. B. Eisingerich pubblicato nel 2013 nel Journal of Customer Psychology.

Se il provare il sentimento di fedeltà o di lealtà è proprio della persona, va messo in chiaro che è in qualche modo favorito o condizionato da:

  • disponibilità a provare e a esercitare tale sentimento;
  • esperienze dirette di diversa importanza e intensità;
  • giudizio degli altri;
  • influenze riverberate dal contesto in cui si vive;
  • norme interiorizzate (stili di vita, correnti di pensiero, ideologie);
  • aspettative correlate ad aspirazioni;
  • meccanismi che incidono sui comportamenti (come si vedrà quando si tratteranno i rafforzatori).

La loyalty è in pratica un costrutto multidimensionale e dinamico, la mappa per giungere alla loyalty non è meno complessa e articolata di quella immaginata oltre quattro secoli fa da Madeleine de Scudéry per gli affari di cuore. Dato che le persone si relazionano con aziende, marche e relativi prodotti/servizi (senza passare in secondo piano tutto quello che c’è sul mercato) in tempi, circostanze, ambienti, touchpoint, media ecc. molto diversi, i percorsi sulla mappa non saranno lineari e consecutivi anche perché sono direzionati a fini differenti non necessariamente fra loro connessi come, per esempio: cercare informazioni, ascoltare consigli e opinioni, osservare un tutorial, contattare l’helpdesk, rilasciare un commento o fare una recensione, partecipare a un evento della community di brand, vedere una campagna pubblicitaria, collaborare a un panel in azienda, partecipare a un gioco online, scaricare l’app e l’elenco può continuare a lungo includendo circostanze, situazioni e azioni. Di conseguenza, se la mappa ha bisogno di punti di riferimento precisi non è detto che le persone li tocchino in una sequenza che risponda a criteri di algida logica, così non è certo che il percorso porti a un acquisto. Come già indicato, la loyalty è un sentimento e i comportamenti delle persone seguono percorsi talvolta imprevedibili, per parafrasare Blaise Pascal si potrebbe dire che “la loyalty ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. TORNA AL SOMMARIO

Le “coordinate” sulla mappa della loyalty

Come indicato, la loyalty è generata da molti fattori in tempi che talvolta si sovrappongono e talaltra sono distanti, non ci sono necessariamente sequenze e nemmeno serie storiche certe (anche se le attività che vedremo nei rafforzatori della loyalty tendono a moltiplicare le occasioni per farla perdurare nel tempo). Le esperienze sull’asse della relazione triadica azienda-marca-prodotti/servizi sono innumerevoli ed effettivamente possono creare occasioni e situazioni per avviare la loyalty, ma nel contempo la rendono anche molto dinamica, ergo soggetta a cambiamenti talvolta repentini. Provo tuttavia a stabilire qualche punto fermo sulla mappa per rendere riconoscibili le situazioni, le azioni e le conseguenze, il contenuto e le connessioni possibili che potrebbero favorire la loyalty.

Va precisato che ogni punto (ergo precursori, iniziatori, mediatori, facilitatori, rafforzatori, confermatori) non ha confini netti e si può arrivare alla loyalty percorrendoli secondo scelte premeditate, o combinazioni casuali.

Precursori

Con il termine precursori si intende tutto quello che viene prima della formazione della loyalty, la preannuncia, la predispone. Sotto questo termine troviamo tutte quelle attività che un’azienda/brand mette in atto per darsi:

  • un’identità e un posizionamento preciso (fra cui la brand platform e il company profile sono documenti molto importanti), nonché va presa in considerazione l’azienda in toto, la sua credibilità, competenza, capacità a innovare, la sapienza produttiva e l’offerta complessiva. Un’attenzione speciale va riservata alla fiducia che, in letteratura accademica, è considerata come precursore per eccellenza della loyalty nonché va tenuto conto della reputazione (potente stimolo per ridurre l’incertezza in relazione a una scelta da fare fra marche spesso simili).
  • L’azienda cercherà per sé, per i suoi brand e per le gamme di prodotti/servizi una adeguata visibilità per poter attrarre l’attenzione e stimolare la preferenza dei target designati.
  • Lavorando con campagne che favoriscono la recognition, l’azienda cercherà quindi di posizionarsi nella mente del potenziale consumatore con una identità marcata e unica (su cui influiranno anche tutte le comunicazioni che circolano on/offline, emanate ufficialmente dall’azienda e quelle diffuse da molti altri soggetti).
  • Le ricerche proveranno poi se i target di riferimento hanno formato nella loro mente una chiara awareness (ossia la consapevolezza) e hanno interiorizzato gli elementi visivi, simbolici, significativi, valoriali dell’azienda e dei suoi brand (elementi che motivano la relazione con la marca tanto quanto gli acquisti).
  • La raggiunta notorietà indicherà che, in qualche modo, una persona è entrata in contatto con il brand e forse con i suoi prodotti. Tuttavia va provata la correlazione fra notorietà e acquisti, ergo va verificato che ci sia una fruizione e un’esperienza effettiva dei prodotti. Molti brand diventano famosi, ma hanno solo ammiratori mentre l’acquisto dei beni (anche nel largo consumo) è fuori dalla portata del loro reddito. La comunicazione ha un ruolo fondamentale per creare il ponte fra una marca e il potenziale consumatore, ma sarà solo dopo l’effettivo acquisto (e un soddisfacente o addirittura gratificante utilizzo) del prodotto/servizio che si potrà vedere se la loyalty riuscirà a germinare, altrimenti ci sarà solo una conoscenza della marca, un’aspirazione, ma nulla che possa portare verso la loyalty e la sua concreta manifestazione in termini di fatturato per l’azienda. Va detto che anche i semplici appassionati di una marca/azienda possono dare un contributo positivo, questo avviene in termini di sostegno alla notorietà per esempio postando commenti positivi sui social. Tuttavia la loyalty ha bisogno di svilupparsi lungo tutto l’asse azienda-brand-prodotto/servizio, ergo se è di grande importanza l’utilizzo effettivo del prodotto non sono secondarie le esperienze positive e vari tipi di interazioni con l’azienda e il brand (che devono essere altrettanto soddisfacenti). TORNA AL SOMMARIO

Iniziatori

il momento di contatto con prodotto/servizio, l’effettivo utilizzo può essere considerato il “momento della verità”. Il bene può essere acquistato, ricevuto in regalo, fatto provare con un sample, ma comunque deve poi essere concretamente impiegato, deve entrare in modo più o meno stabile nella vita della persona. La comunicazione continuerà a essere di sostanziale importanza poiché notizie negative sull’azienda o sul brand possono azzerare gli acquisti, o possono innestare pregiudizi, o comunque una predisposizione avversa che inficia un precedente giudizio positivo dato al prodotto. Le pratiche di utilizzo del prodotto (o del servizio, per esempio una consulenza in banca, un buon taglio di capelli, una visita medica accurata, un soggiorno gradevole in hotel e via elencando tantissime altre tipologie di servizi) avviano le esperienze.

In letteratura se ne considerano 7 tipi:

  1. sensoriale
  2. emozionale
  3. cognitiva
  4. pragmatica
  5. lifestyle
  6. relazionale
  7. social

Quest’ultima si è sviluppata a partire dagli anni 2000, è un’esperienza che si fa sia nei network/piattaforme sia in tutti i touchpoint online dell’azienda o di terze parti che consentano condivisione.

Le esperienze sono un potente motore per avviare forme di loyalty e Il consumatore è un bricoleur di esperienze che ricerca e assembla, lungo tutta la catena di connessioni fra azienda, marca, prodotti/servizi e condivide e suggerisce. C’è una vasta letteratura sull’economia dell’esperienza in relazione a qualunque tipo di interazione che avviene appunto sull’asse azienda-marca-prodotto/servizio (cito come utile riferimento “A framework for understanding and managing the customer experience” di A. de Keyser, K. N. Lemon, P. Klaus, T. L. Keiningham pubblicato nel 2015 su Marketing Science Institute working paper series; resta ancora di grande validità il libro “Planète conso: marketing expérientiel et nouveaux univers de consommation” di Patrick Hetzel edito nel 2002 da Éditions d’Organisation). Le aziende industriali del largo consumo tanto quanto i retailer devono sviluppare un orientamento sistematico verso la customer experience (CXO customer experience orientation) che si deve concretizzare in progetti continuamente sottoposti a verifica per essere migliorati e potenziati (si veda lo studio “Customer experience orientation: conceptual model, propositions and research directions” di F. Arkadan, E. K. Macdonald, H. N. Wilson pubblicato nel 2024 dal Journal of the Academy of Marketing Science). In questo studio vengono individuati quattro fondamentali mediatori:

  1. experience visibility (visibilità e disponibilità, modalità di accesso all’esperienza resa evidente sia per il consumatore, che sta per affrontarla, sia per gli altri che per spirito di imitazione, o di emulazione lo potrebbero seguire)
  2. journey heterogeneity (sono diverse le motivazioni e gli obiettivi che ogni consumatore si pone quando affronta il percorso di ricerca e di acquisto di un prodotto, l’experience-design dovrebbe inglobare l’eterogeneità offrendo le risposte adeguate)
  3. experience turbulence (per minimizzare o rimuovere gli elementi che possono costituire ostacoli e esperienze negative è determinante alzare il livello di qualità nei servizi e mettere in atto approcci di brand generosity)
  4. journey controllability (la progettazione del percorso va fatta in collaborazione con i clienti in uno spirito di co-design).

Questi mediatori vanno progettati, dotati di touchpoint adeguati e definiti nella prospettiva del cliente, aspetti di cui appunto il CEM customer experience management si occupa. Oltre alle esperienze lungo tutto il percorso che porta all’acquisto di un bene (o alla fruizione di un servizio) e a quelle che aiutano il consumatore a familiarizzare con il prodotto, vi sono attività che si configurano in termini di relazione con il brand e l’azienda.

Relazioni ed esperienze si integrano giacché sono anche intermediate dall’ambiente (si pensi per esempio al negozio fisico), dalle persone (il personale dell’azienda tanto quanto le proprie relazioni di prossimità o sui social), dal contesto e dal momento. In breve, un’esperienza attiva (per esempio usare il prodotto, contattare l’help desk), o un’esperienza passiva (assistere a un tutorial, vedere una campagna pubblicitaria) se portano a uno stadio di soddisfazione hanno buone probabilità di predisporre alla loyalty, così come la relazione di tipo generoso e empatico da parte dell’azienda predispone alla fiducia (ossia la capacità dell’azienda di mettere a disposizione strumenti di dialogo, di dedicarsi all’ascolto, alla comprensione e alla effettiva risoluzione dei bisogni espressi e latenti dei clienti). TORNA AL SOMMARIO

Mediatori

Cosa intermedia fra la persona e il sentimento della loyalty? Intanto vanno eliminate le barriere come la mancanza del prodotto sul punto di vendita dopo che una campagna di comunicazione ha incuriosito e predisposto all’acquisto e alla prova, purtroppo non sempre i tempi di distribuzione coincidono con i tempi di lancio. La disponibilità e la facile reperibilità del prodotto/servizio sono elementi di base nel mondo fisico tanto quanto in quello digitale (per esempio con soluzioni di search precise e veloci che portano dritto all’azienda e a trovare ciò che interessa). Vi sono touchpoint fisici e digitali che dovrebbero aiutare il contatto con l’azienda, pensati per soddisfare bisogni di informazione (per esempio la storia dell’azienda) e di rassicurazione (come la tracciabilità delle materie che compongono il prodotto e il ciclo di lavorazione). Quando parliamo di mediatori ci riferiamo a canali di comunicazione, mezzi, strumenti fisici e digitali, alla loro facilità e immediatezza d’uso, senza passare in secondo piamo la qualità dei contenuti che possono essere fruiti, la capacità di avviare comunicazioni a due vie. Ogni azienda per comunicare se stessa e i propri brand può fare affidamento su:

  • media e touchpoint di proprietà (a una o due vie)
    • sito web è l’owned media per antonomasia (con o senza e-commerce);
    • app;
    • account nelle varie piattaforme social;
    • digital database marketing che consiste in dem, newsletter comunicazioni e inviti personalizzati;
    • rivista aziendale cartacea (uno strumento ripreso dalla gdo in questi ultimi anni);
    • volantini cartacei e digitali;
    • cataloghi di prodotto;
    • cataloghi raccolte punti;
    • help desk e customer care service;
    • eventi;
    • panel in azienda;
    • packaging del prodotto (spesso dotati di qr-code che consentono di accedere a informazioni specifiche o di arrivare nella landing page del sito o di partecipare a concorsi e altre tipologie di promozione);
    • campagne di comunicazione;
    • altre soluzioni ancora che mettono l’azienda nella condizione di diffondere direttamente comunicazioni e/o di aprire un dialogo con i clienti.
  • media ad intermediazione giornalistica: sono quelli che hanno un editore e una struttura di redazione composta da giornalisti professionisti. Fra i media giornalistici si annoverano: quotidiani, riviste consumer, riviste trade. Ormai quasi tutte le testate cartacee hanno anche un’edizione online. Vi sono inoltre agenzie di stampa online, radio, televisioni, web tv, canali telematici. Quando l’azienda vuole proporre contenuti informativi (ovvero notizie in senso giornalistico) vengono impiegati gli strumenti propri dell’ufficio stampa, se invece l’azienda vuole comunicare contenuti promozionali ha a disposizione moltissimi format come per esempio native advertising, branded content, boosted post ecc.
  • media di terze parti non giornalistiche: siti e blog gestiti da autori, influencer, celebrity (i contenuti proposti dalle aziende sono quasi soltanto di tipo promozionale e quindi soggetti ad accordi commerciali con l’influencer, o la celebrity). L’azienda si può avvalere di autori specializzati su tematiche particolari (si hanno così i rented media quando un autore è ingaggiato, letteralmente “noleggiato”, per divulgare contenuti che riguardano l’azienda)
  • altri media di terze parti:
    • piattaforme social;
    • motori di ricerca.
      Tutte le piattaforme social (Facebook, LinkedIn, Instagram, YouTube e tante altre nate negli ultimi vent’anni) nonché i motori di ricerca (Google, Yahoo, Baidu e numerosi altri a livello mondiale, o nazionale) offrono l’opportunità di promuovere i contenuti aziendali attraverso varie formule di pubblicità e di search. Possono essere sviluppate anche soluzioni per interagire con le persone (clienti e non ancora tali) nell’ambiente del metaverso. In alcuni Paesi è disponibile anche il retail media.

Un ruolo ancora poco studiato è svolto dalle sharing communities (gruppi di utilizzatori esperti del prodotto che, sotto l’egida di un’azienda, divulgano informazioni corrette e danno consigli), si tratta di persone che formano gruppi spontanei animati solo dal desiderio di essere utili ad altri, sono ben diversi dagli influencer di professione. Recensioni, siti di comparazione e word of mouth sono da annoverarsi fra i mediatori, ossia quell’insieme di attività, strumenti e mezzi che rendono possibile il venire a conoscenza di un prodotto, aiutano in un percorso di ricerca e rendono possibile entrare in contatto con l’azienda e i suoi brand. TORNA AL SOMMARIO

Facilitatori

Come già indicato, la loyalty ha basi psicologiche, si compone di elementi:

  • razionali (cognition, ossia il processo mentale di acquisizione della conoscenza, di uso della comprensione, di formulazione di pensieri compiuti);
  • emotivi (emotion, ossia il processo mentale relativo a sentimenti, istinti, sensazioni);
  • volitivi (conation, ossia la capacità di porsi uno scopo, di formulare un desiderio).

È uno stato d’animo in cui le esperienze hanno un ruolo importante, tanto quanto la concreta soddisfazione delle aspettative valutate razionalmente, mentre la fiducia si fa strada e si stabilisce un legame che passa attraverso il prodotto, il brand, l’azienda in un circuito continuamente alimentato.

Cosa può fare l’azienda per facilitare la loyalty? Ci sono tre soluzioni di cui l’azienda si può avvalere mettendo in atto progetti coordinati che possano stimolare ispiration, intimacy, complicity avendo come interlocutore ogni cliente:

  1. Customer inspiration: da una ricerca promossa nel 2019 dall’Università olandese di Groningen ne è derivato un ampio studio intitolato “Loyalty formation for different customer journey segments” realizzato da D. Herhausen, K. Kleinkercher, P. C. Verhoef, O. Emrich, T. Rudolph e pubblicato sul Journal of Retailing. Lo studio basato su differenti, ma al loro interno omogenei, cluster di consumatori (ne vengono individuati 5 specifici) mette in luce il loro comportamento lungo il percorso dalla ricerca di un prodotto/servizio all’acquisto, esplorando la relazione fra product satisfaction, journey satisfaction e customer inspiration. Se la soddisfazione (quella relativa al prodotto, quella relativa alle esperienze e all’uso dei touchpoint a una o a due vie per arrivare a relazionarsi con l’azienda o a trovare il prodotto ecc.) sono temi molto studiati, l’ispirazione è invece un punto innovativo sulla mappa della loyalty. Secondo lo studio sopra citato, con customer inspiration si intende la trasformazione cognitiva degli stimoli acquisiti lungo il percorso di ricerca e acquisizione, ma anche di utilizzo del prodotto e in senso lato si potrebbe dire di tutto quello che emerge nelle relazioni multiple che la persona sperimenta sull’asse azienda-marca-prodotto. Le aziende dovrebbero quindi prestare attenzione a come le persone interpretano gli stimoli (razionali, sensoriali, emotivi) che ricevono e come li connettono a desideri, preferenze, decisioni effettive. Nel negozio fisico un propulsore dell’ispirazione risiede nell’insieme coordinato di sensazioni, lo stesso si dica per il prodotto fisico e a maggior ragione per i servizi (soprattutto quando è determinante l’intermediazione di un esperto), negli acquisti online l’ispirazione è stimolata facendo ricorso all’immaginazione del cliente, al coinvolgimento (anche ludico), alla mobilitazione di aspirazioni (per esempio essere considerato un innovatore, ossia fra i primi a utilizzare un prodotto) ovviamente il tutto in stretto coordinamento fra tipologia di prodotto e target di riferimento
  2. Customer intimacy: per essere vicini al cliente, persino intimi amici bisogna prima conoscerlo attraverso i metodi e gli strumenti del CKM ossia il customer knowledge management. La premessa all’intimacy è la scelta dell’azienda di aprirsi all’ascolto e al dialogo, cui seguono fatti concreti, ossia l’azienda si dota di tutti gli strumenti a due vie atti a rendere effettivo il dialogo e dispone di personale per poterlo gestire adeguatamente. Il CRM (il customer relationship management) fornisce solo dati connessi agli acquisti, ma non offre la possibilità di accumulare e gestire la conoscenza come solo il CKM può fare giacché essa è pianificata in tre aree:
    • conoscenza per i clienti, volta a metterli nella condizione di conoscere l’azienda, i brand, i prodotti/servizi. Una conoscenza che deve apportare benefici ai clienti così da stimolare la fiducia
    • conoscenza sui clienti (attraverso ricerche e altre fonti di dati) che porterà all’azienda informazioni per progettare prodotti e servizi distintivi, soluzioni di customer care all’altezza delle aspettative, iniziative che soddisfino le persone in toto riconoscendo le loro aspirazioni e rispettando i loro valori
    • conoscenza dai clienti prendendo in considerazione l’apporto che sono in grado di fornire. Ascoltare la voce dei consumatori (soprattutto nel settore dei beni di largo consumo) significa valorizzare la loro reale esperienza e trarre ispirazione dalle proposte che suggeriscono.
      In pratica l’intimacy con i clienti passa attraverso articolate forme di conoscenza che presuppongono la disponibilità di touchpoint, l’apertura all’ascolto, la volontà di dialogo, il senso di accoglienza, l’impegno nel mettere in atto forme di empatia, di generosità, di affettività, di sensibilità. L’intimità implica una relazione emozionale, un impegno di cura, un effettivo attaccamento che spesso porta verso la forma più forte di loyalty, quella attitudinale. Le aziende che attivano progetti atti a rendere effettiva la customer intimacy creano legami affettivi solidi fra i clienti e la marca e il sotteso sistema di prodotti/servizi
  3. Customer complicity: è una relazione di tipo empatico molto sviluppata nel settore dei servizi che implicano un rapporto diretto fra il personale dell’azienda e i clienti. Nel largo consumo e nel retail c’è un ritorno al servizio prestato ai clienti e quindi riguadagna importanza l’ammiccamento, l’intesa, un affiatamento che incide sulla qualità percepita e sulla soddisfazione del cliente quando il personale a contatto diretto con i clienti (sia nel punto di vendita fisico, sia nell’helpdesk o in altre situazioni da remoto) riesce a performare in modo eccellente sia nelle mansioni in-role (prescritte dall’azienda e definite in contratti di lavoro e mansionari), sia in comportamenti extra-role (messi in pratica su base volontaria, improntati all’altruismo, alla gentilezza, alla disponibilità all’ascolto che in dottrina vengono catalogati come organizational citizenship behavior).
    Se le aziende mettessero in atto politiche di empowerment verso i dipendenti (soprattutto quelli in diretto contatto con il pubblico) questi comportamenti extra-role diventerebbero spontanei, si creerebbe un clima in cui i legami fra il personale di lavoro e i clienti favoriscono la customer complicity, la fiducia e persino una forma di riconoscenza (si veda per esempio “Service loyalty: its nature, importance, and implications” di Dwayne D. Gremler e Stephen W. Brown e più recentemente “Linkages between service quality, customer satisfaction and customer loyalty” di P. Arora, S. Narula). Come attivare la complicity? Giacché nasce dall’interazione fra due o più persone sono molto valide soluzioni che richiedono reciproca cooperazione, per esempio iniziative di gamification, eventi come le escape room. Sintonia nelle azioni e reazioni creano forti legami di complicità, la componente di divertimento è spesso l’humus che tiene tutto unito e crea un “momento magico”. La complicità è uno stato mentale, ma anche un processo dinamico che instaura una relazione privilegiata fra due o più persone, in questo contesto la marca deve guidare il gioco per attrarre a sé gli effetti positivi della complicità. Quel che le ricerche psico-sociali mostrano è che il reward è spesso dato dalla gratificazione immateriale di sentirsi complice della marca (come le community e le purpose-built app dimostrano). TORNA AL SOMMARIO

Rafforzatori

La loyalty si sviluppa lungo l’asse azienda/brand/prodotti o servizi, ciascuno di questi elementi deve essere in sana e robusta relazione con gli altri, ossia deve avere una struttura chiaramente delineata e identificabile, congruente e in sintonia reciproca.

Se un brand ha cinque dimensioni (semiotica, relazionale, intersoggettiva, contrattuale, entropica), non meno complessa è la struttura dell’azienda (la cui matrice di identità deve esprimere valori profondi e virtù civiche che oggi vengono inclusi nel purpose, posizionamento distintivo e una mission ben delineata, tipo di orientamento al mercato, chiara vision delle evoluzioni future, capacità e competenze espresse dal proprio capitale culturale, capitale umano effettivamente valorizzato, sistema di reattività messo a disposizione, ossia tipologia di relazioni che vuole instaurare e touchpoint offerti per interagire). In particolare, è di grande importanza il tipo di relazione che l’azienda vuole instaurare con tutti gli interlocutori della filiera a cui appartiene e non solo con i consumatori finali.

In letteratura accademica, si contano sette macro tipologie di relazione:

  1. mutual (le parti coinvolte contribuiscono attivamente alla crescita del rapporto e al mantenimento della parità);
  2. communal (le parti provano scambievolmente lo stesso grado di responsabilità, ma può accadere che una delle parti si impegni maggiormente stabilendo una certa asimmetria);
  3. covenantal (relazione caratterizzata da impegno reciproco, lealtà e senso di scopo condiviso. Dà luogo a una alleanza, un legame profondo che è riscontrabile nella attitudinal loyalty quando la fiducia riposta dal cliente è continuamente confermata dal comportamento positivo dell’azienda: prodotti ottimi, apertura al dialogo, valori effettivamente praticati ecc.);
  4. contractual (la relazione è un accordo vincolante in cui le due parti si impegnano ad adempiere alle condizioni stabilite per ricevere in cambio benefici. È il tipo di relazione tipico delle manifestazioni a premio e degli schemi di loyalty del retail);
  5. symbiotic (la relazione si configura in situazioni negative come il parassitismo, eque come il mutualismo, positive come il commensalismo);
  6. manipulative (la relazione è segnata dalla coercizione, da forme di controllo dell’altra parte);
  7. exploitive (è una relazione di sfruttamento).

Ciascuna di queste relazioni è ben caratterizzata da elementi identificativi che consentono specifici comportamenti. In questo contesto la relazione di tipo covenantal e quella di tipo contractual sono riscontrabili nelle proposte delle aziende e dei retailer verso i consumatori.

Più l’azienda è aperta alla relazione e offre effettivi touchpoint che rendono possibili e facili autentiche forme di conversazione, maggiore è la possibilità che la comunicazione, gli interventi, le iniziative possano trasmettere emozioni, consentano di fare esperienze, attivino engagement e la relazione si consolidi diventando continuativa, improntata veramente alla loyalty. Tuttavia, un errore, un problema, un evento negativo che capita all’azienda, a uno dei suoi brand, ai prodotti inevitabilmente ricade su tutti gli altri elementi che compongono l’asse, indebolendo di molto qualsivoglia predisposizione e interesse, o addirittura azzerando la fiducia, chiudendo ogni rapporto con l’azienda e la marca. Va considerato che, in Italia, molti brand hanno lo stesso nome dell’azienda, quindi è ancora più determinante la scelta di coesione e coerenza quando si tratta di scegliere i rafforzatori che potranno incidere sulla loyalty.

Varie forme di gratificazione, i reward, gli incentivi, le ricompense materiali e immateriali sono da annoverare fra i più potenti rafforzatori della loyalty poiché guidano comportamenti che, per dirla con Herbert A. Simon sono condizionati da una bounded rationality (razionalità limitata) nel processo decisionale (il riferimento è al suo libro del 1957, intitolato “Models of bounded rationality”, pubblicato da MIT Press e rielaborato in successivi studi), ossia la decisione di acquisto va nella direzione di accontentarsi di una qualche soddisfazione. Si è lontani dalle teorie della scelta razionale e della massimizzazione dell’utilità, più concretamente e umanamente Simon constata che la preferenza, il processo decisionale che porta a una scelta sono estremamente labili, soggettivi, condizionati da percezioni fallaci e da ragionamenti ricavati da informazioni limitate.

Quindi nel momento dell’acquisto non aspettiamoci un consumatore/calcolatore, ma una persona che, in alcune circostanze, si potrebbe lasciare attrarre da soluzioni semplificate (per esempio la scontistica o un gift immediato), o da un vincolo precedentemente accettato (per esempio l’aver aderito a uno schema di loyalty, come per esempio una raccolta punti), pensando che gli apportino una qualche soddisfazione. Tuttavia la razionalità, per quanto limitata da diversi fattori, è comunque attiva e, basandosi su precedenti esperienze, memoria e conoscenze, lavora insieme a un altro elemento, il desiderio, per arrivare a una scelta soddisfacente. Si deve a Timothy Schroeder e alle neuroscienze (il suo libro “Three faces of desire”, del 2004 è edito Oxford University Press) la definizione di un nuovo approccio al tema del desiderio come fattore determinante nelle scelte. Il desiderio è visto in connessione con tre elementi: l’azione, il piacere e la ricompensa. Dove il reward agisce da rinforzo sul comportamento determinandolo anche nel futuro quando si formano aspettative consapevoli circa la ricompensa se ci si comporta allo stesso modo. I segnali di ricompensa (oggetti, ma anche loro rappresentazioni mentali, da tenere presente l’importanza della visibilità dell’esperienza e del reward) funzionano da rinforzo per un certo tempo. La ricompensa per agire sul desiderio deve avere un legame positivo che si estende oltre l’asse azienda/brand/prodotto, ossia deve ricomprendere anche il progetto promozionale in toto (meccanica, tempi e modalità di azione, grado di engagement richiesto, comunicazione e contenuti, luogo fisico o digitale in cui si esplica ecc.).

Ad ogni buon conto, come spiega Uri Gneezy nel suo recente libro intitolato “Mixed signals: how incentives really work” (pubblicato nel 2023 da Yale University Press), non tutte le forme di incentivazione sono capite dai destinatari e gli esiti (i comportamenti richiesti) non sempre vanno nella direzione auspicata. Se indubbiamente i reward mandano segnali possenti, la risposta potrebbe non essere quella auspicata quanto manca l’allineamento coerente lungo tutto l’asse (ossia gli elementi con cui le persone si relazionano e confrontano: azienda e suoi brand e prodotti, retailer e suoi prodotti o di altri, campagna di comunicazione, campagna di promozione ecc.).

Oggi le soluzioni disponibili on/offline per attivare interesse, partecipazione e desiderio sono molte. In Italia, vanno sotto il nome di manifestazioni a premio e sono regolate da una precisa normativa fin dal 1938 (più volte ripresa e aggiornata). A queste si aggiungono iniziative nate dalle innovazioni tecnologiche (in particolare nel mondo digitale come: gamification, blockchain, metaverso, non-fungible token, valute virtuali ecc.), ma anche iniziative più tradizionali come gli eventi e molte altre tipologie di progetti.

Per indurre nel consumatore finale forme di loyalty l’azienda deve dunque mantenere comportamenti corretti che non inficino in nessun modo la sua reputazione, deve proporre brand e prodotti che ispirano fiducia e procurano effettivi benefici, a tutto questo si aggiunge la necessità che l’azienda definisca il tipo di relazione che vuole instaurare con i consumatori e che ruolo riserva loro considerando che, quando il beneficio ricevuto è sentito dalla persona come veramente importante, in dottrina si parla di obbligazione morale a restituire, a ricambiare, così la persona agisce da endorser, suggerendo il brand a conoscenti, sollecitandoli a preferirlo, o agisce come influencer spontaneo sui social. Su questa base si innestano poi gli interventi per stimolare, nutrire e rinsaldare forme di fedeltà. TORNA AL SOMMARIO

Confermatori

se per iniziare, la relazione necessita di una transazione commerciale (l’acquisto e la prova del prodotto), o il richiamo di una campagna pubblicitaria, o la solleticazione di una campagna promozionale, o ancora la proposta di un influencer, per continuare necessita della mobilitazione di ragione e sentimento, in pratica quel mix di emozioni, gratificazioni, performance tecniche validate e quanto altro si possa concretizzare nella fiducia riposta nell’azienda e nel brand, nella soddisfazione ricavata dall’uso del prodotto/servizio, nel desiderio di far perdurare la relazione e di continuare a fruire di esperienze positive.

Gli elementi che confermano l’avvenuta formazione della loyalty per un’azienda/brand/prodotto e la sua stabile presenza nella vita del cliente sono:

  • sia materiali (la continuità di preferenza che porta ad acquisti ripetuti nel tempo)
  • sia immateriali (come le attività del cliente sui social, il wom positivo che dirama, la partecipazione ad eventi, l’invio spontaneo di proposte all’azienda che il customer knowledge management può valutare e mettere a frutto, altro ancora).

Tutti aspetti che vanno misurati, continuamente monitorati per scoprire per tempo se la loyalty si sta indebolendo. Conoscere (in particolare attraverso ricerche qualitative) in quale tipo e livello di loyalty (fedeltà/lealtà) si collocano i propri clienti è di determinante importanza sia per definire quali tecniche, media e contenuti, stimoli impiegare sia per stabilire nuove opportunità, occasioni e momenti dedicati per riaccendere l’interesse e portare il target verso un comportamento volitivo di preferenza e di scelta consapevole e motivata.

Consideriamo ora il fattore tempo. Se alcune iniziative promozionali sono finalizzate esclusivamente nel breve e brevissimo periodo per creare solo bolle di vendita (innesco importante anche per far conoscere un prodotto e un brand), altre sono più strutturate e contengono soluzioni per incidere su esperienze con la marca e il prodotto nel medio-lungo periodo, incrementando l’engagement del consumatore affinché approdi ad altre iniziative in una concatenazione temporale che ha lo scopo di mantenere aperta e attiva la relazione fra il cliente e l’azienda/brand. C’è comunque un limite oltre il quale il consumatore non accetta più di essere stimolato soprattutto quando si tratta di behavioral loyalty.

Leggi anche: Non c’è engagement
senza involvement

I segnali di fatigue si riscontrano nella diminuita partecipazione ad iniziative, in assenza di commenti e rilanci sui social, in quell’insieme di azioni che vanno sotto il nome di diminishing return che incidono pesantemente sull’efficacia delle campagne, sui risultati e sui costi. Monitorare lo stato della loyalty non basta, è necessario attivare un effettivo customer knowledge (CKM) per individuare aspetti più profondi relativi a comportamenti e necessità del consumatore. Scoprire perché non è più reattivo a forme di sollecitazione della loyalty verso brand/prodotti consente di verificare se il consumatore non è più recuperabile, se è solo momentaneamente disinteressato, se il problema riguarda il prodotto (non più performante rispetto alle attese), se il brand sta entrando in una fase di entropia. I segnali che i consumatori mandano sono da interpretare con attenzione perché potrebbero non riguardare una situazione transitoria (la behavioral loyalty è per sua natura instabile), ma svelare problemi ben più complessi che riguardano l’azienda. TORNA AL SOMMARIO

Marilde Motta

Nella comunicazione dal 1978, in costante aggiornamento e approfondimento. Ho scelto le pubbliche relazioni come professione, dedicando attenzione a promozioni e direct marketing, su cui scrivo. Amo all’unisono il silenzio, i libri e i gatti. contatti@adpersonam.eu