La loyalty nel lusso: in cosa consiste, come si manifesta e come si coltiva

Marilde Motta06/11/2025

Se la loyalty è un costrutto molto studiato per i brand che firmano i beni di largo consumo e per numerosi servizi (compagnie aeree, banche, hotel ecc.), non lo è altrettanto nel lusso. Con questo articolo proviamo a sviluppare alcune congetture che dovranno essere approfondite con ricerche estensive. Facciamo prima un distinguo. Quando ci si riferisce alla loyalty bisogna separare:

il sentimento, ossia lealtà/fedeltà in diversi gradi e combinazioni (che preciseremo più avanti) verso un brand e verso l’azienda che lo ha fondato e lo gestisce, considerando che talvolta nome dell’aziende e quello della marca coincidono, talaltra sono entità separate e una stessa azienda può arrivare a possedere diversi brand

da ciò che lo innesca spontaneamente, vale a dire l’attrattiva endogena alla marca/azienda dovuta alla sua identità, storia, purpose, capacità di proporre prodotti e servizi eccellenti, responsabilità sociale e ambientale, heritage nonché molti altri aspetti che assumono rilevanza per i clienti attuali e potenziali a seconda dei beni e servizi immessi sul mercato, delle circostanze e di altri fattori

da ciò che lo stimola artificialmente, cioè i meccanismi esogeni alla marca, come differenti forme di comunicazione, influenza e promozione.

Preciseremo questi aspetti (si veda anche l’articolo Mappare la loyalty, un sentimento individuale, multidimensionale, dinamico e…) nei successivi paragrafi, ora preme definire il mondo del lusso e come le persone si relazionano con esso.

SOMMARIO

Lusso in estensione

Lusso scalare e clientela

La loyalty nel lusso: attitudinale o comportamentale?

Come si coltiva la loyalty nei diversi livelli di lusso?

Lusso in estensione

Il lusso è un settore tutt’altro che monolitico, è anzi necessario illustrare come si articola. In questo contesto esaminiamo solo il lusso che deriva dai grandi brand della moda (il lusso comprende moltissimi settori: automotive, aerei e trasporto privato, alta hôtellerie e ristorazione, orologeria e gioielleria, champagne e fine food, collezionismo d’arte ecc.). Fra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso le maggiori aziende della moda (in primis quelle francesi e poi quelle italiane e via via i brand di altri paesi) hanno gradatamente dato luogo a estensioni più o meno lunghe e coerenti (va ricordato che alcune maison storiche le avevano già iniziate in modo pionieristico negli anni ’30 abbinando moda, profumi, gioielli). Le più tipiche brand extension si sono avute generando collezioni nei cosmetici e profumi, accessori come scarpe e borse, gioielli e orologi e altri prodotti di complemento alle linee principali di moda (per esempio guanti, foulard, occhiali). Il fenomeno della brand extension è continuato anche negli anni successivi in forme ancora più articolate, le aziende del lusso sono entrate in settori e categorie di prodotti/servizi lontani dal core business (come hotel, ristoranti, interior design e complementi di arredo, yacht, spirits e alimenti di eccellenza) sia gestendoli direttamente (per esempio dando vita a conglomerate holding company) sia attraverso forme di licensing, partnership finanziarie e altre soluzioni.
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Lusso scalare e clientela

Molti dei prodotti e servizi pur sotto uno stesso brand identificativo (soprattutto quando coincide con il nome dell’azienda e, come spesso accade nel fashion, con il nome del fondatore), pur condividendone lo spirito finiscono però per avere un valore monetario molto diverso, un posizionamento inferiore (a livello premium oppure prestige) rispetto al core-luxury con cui il brand ha costruito la propria fama e attrattiva, oppure (sebbene in pochi casi) si rileva l’ascesa verso un lusso ancora più rarefatto e personalizzato, il bespoke (rappresentato dalla haute couture). I clienti hanno consapevolezza di questa situazione scalare che va dunque:

verso il basso, dove si collocano i prodotti premium e prestige (dal profumo ad altre referenze accessibile e acquistabili sporadicamente, poiché richiedono comunque un importo di spesa da valutare attentamente);

baricentro, il core-luxury, il fulcro dell’azienda da cui si sono generate le extension;

verso l’alto, il bespoke (con prodotti più difficili da raggiungere, come pezzi importanti di gioielleria, il “su misura” esclusivo).

Nel lusso è il brand (quindi le sue linee e categorie di prodotti e servizi) che condiziona il comportamento del consumatore dopo aver tracciato la linea di demarcazione fra i livelli premium, prestige, core luxury, bespoke, e con le possibili intersezioni come le capsule collection, le limited edition ecc. Va precisato che non tutti i brand fanno una politica di brand extension in tutte le direzioni e a diversi livelli. Molti brand si posizionano nei primi due livelli e tutto quello che realizzano resta chiuso in questi due ambiti. Altri brand già attivi nel core-luxury si espandono ai vari livelli (in basso e in alto) per cogliere la domanda anche in diversi paesi. Infine ci sono aziende che hanno sempre operato al livello più eccelso del bespoke e restano solo in questo.

Sono così possibili queste combinazioni in relazione alla clientela:

non cliente, ma solo follower del brand: è la persona che lo segue sui social, che interviene con commenti (negativi/positivi/neutri), con l’uso di emoticon, condivisioni e rilanci, che vorrebbe entrare a far parte del mondo di quel brand, ma non ha la possibilità economica (talvolta con consapevolezza, talaltra senza, finisce per acquistare fake, in particolare via e-commerce). In anni recenti molte aziende del lusso hanno operato sui social (attraverso la panoplia di owned, paid, shared, endorsed, rented, earned media oggi disponibile) cercando di costruire una massa di follower (o appassionati, addicted e si potrebbero usare diversi altri aggettivi per indicare il grado di interesse e attaccamento al brand di queste persone), allontanandosi quindi dalle precedenti strategie di comunicazione molto mirata su target alto-spendenti in linea con il solo core-luxury. Si è creato uno spillover, un traboccamento di contenuti che si è allargato a macchia d’olio, talvolta indipendentemente dalla volontà dei brand, toccando tanti e diversi soggetti rispetto alle reali intenzioni. Oggi questa strategia è in fase di revisione e si sta riconsiderando in modo più mirato e preciso l’uso dei media così da divulgare contenuti pertinenti a target con effettive potenzialità di diventare clienti e non solo follower senza potere di acquisto e senza capacità di apportare all’azienda il benché minimo beneficio (va detto per inciso che la notorietà va anch’essa guidata per evitare ricadute negative sulla reputazione);

cliente dei prodotti premium di fascia più accessibile (per esempio cosmetici e profumi), acquistati comunque in modo non frequente;

cliente dei prodotti premium che accede seppur raramente anche ai prodotti prestige (per esempio accessori), talvolta è anche un cliente del vintage dei grandi brand del lusso, o utilizza forme di fashion renting (noleggio) di abiti e accessori, in tempi più recenti beneficia anche di formule di rateizzazione o di credito al consumo con varie formule di finanziamento;

cliente dei prodotti prestige che accede sporadicamente anche al core luxury, anche questo è un cliente del vintage, ma dotato di maggior competenza sulla storia e gli stili dei brand avendo avuto più familiarità diretta con questi, è attento al proprio stile e alle affinità con la filosofia dei brand scelti;

cliente del core luxury che acquista abitualmente una diversificata gamma di prodotti e servizi firmati dai brand del lusso, spaziando in modo continuativo ed estensivo su praticamente tutto quello che i brand possano offrire;

cliente del bespoke luxury che sceglie di preferenza il “su misura”, l’unicità, l’eccezionalità, si tratta di un nucleo di clienti relativamente più limitato considerando le classificazioni di reddito a livello mondiale (gli high net worth individual, ossia i detentori di un alto patrimonio netto personale) suddivisi in: hnwi (high net worth individual), very-hnwi, ultra-hnwi.

Le persone che rientrano nei tre livelli di high net worth sono nel mondo complessivamente circa 100 milioni, molti di più sono i clienti del core-luxury e ancora più numerosi quelli per i livelli premium e prestige, si stima oltre un miliardo, considerando la crescita esponenziale di paesi come India, Cina, Brasile, Nigeria e altri ancora. Il lusso, nei vari gradi e forme che assume, sta diventando alla portata di milioni e milioni di persone in tutti i continenti.

L’ordine scalare dei vari livelli di lusso è essenzialmente uno standard adottato da moltissimi brand per diversificare e posizionare l’offerta. La graduatoria, che differenzia i clienti, non implica che ci sia da parte delle persone un percorso altrettanto scalare di accesso al lusso, più semplicemente i comportamenti di scelta rimangono fuzzy, ambigui, imprevedibili, talvolta contradditori.

L’entrata sul mercato di tanti marchi (alcuni nuovi, altri antichi e riportati in vita, altri con una storia straordinaria e continuativa), tutti dotati di una presenza capillare di comunicazione e di punti di vendita fisici (oltre che online) nei Paesi dove si è registrata la nascita di classi affluent (da agiate a benestanti a decisamente ricche) è fra i fattori dell’espansione del lusso a livello mondiale. In pochi anni si è passati da un nucleo di clienti relativamente limitato per ogni brand (si pensi, per esempio, che la haute couture francese fino agli anni ’80 serviva solo 3.000 clienti) a milioni di potenziali clienti. Sebbene questa graduatoria delle tipologie di clienti si riferisca principalmente ad azioni di acquisto (e correlata frequenza e valore monetario) dei brand della moda (e settori derivati dalla brand extension), va tenuto presente che entrare in possesso di un bene è sostanzialmente l’atto che consente di esibirlo nei contesti di vita e nelle relazioni con gli altri.

Va richiamato qui proprio il ruolo giocato dagli “altri”, ossia le persone vicine (parenti, amici, colleghi e conoscenti) e le persone remote (i collegamenti sui social). Il riferimento è all’opera di Pierre Bourdieu, La distinction, ormai un classico della sociologia e, anche se scritto in un’epoca in cui i social erano ancora da inventare, fornisce strumenti interpretativi molto validi per seguire i comportamenti e gli atteggiamenti delle persone. Ci sono infatti condizionamenti sociali, stili di vita, tendenze e gusti dominanti verso cui ci si conforma. I prodotti e le marche del lusso divengono simboli, segni di appartenenza che dichiarano un voler essere oltre a un poter essere (non disgiunto da autocompiacimento). I social consentono di acquisire visibilità, di creare e gestire una rappresentazione di sé. Il fenomeno degli influencer e dei follower è particolarmente radicato nel settore del lusso premium e prestige, meno frequente nel core-luxury, mentre nel bespoke luxury la comunicazione è ben mirata e chiusa entro le linee di demarcazione di circoli ristretti, dove le persone si confrontano alla pari con le scelte degli altri membri (non riconoscendo quindi influenzatori a loro estranei).
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La loyalty nel lusso: attitudinale o comportamentale?

Premesso dunque che vi sono milioni di potenziali clienti per i brand che si posizionano ai vari livelli del lusso, va esaminata ora la loro loyalty (che si divide in fedeltà/lealtà, comportamentale/attitudinale).

Virtù, sentimenti, atteggiamenti, o come li si voglia definire, i due costrutti di fedeltà e lealtà possono essere esaminati da diverse angolazioni. Nel marketing afferente i brand del lusso, va tenuto in considerazione sia il dato psicologico, sia aspetti puramente razionali e cognitivi che hanno un ruolo altrettanto determinante (soprattutto conoscenza e competenza entrano in gioco nel lusso di livello più elevato, si usa spesso il termine connoisseur, ossia intenditore, per definire l’approccio consapevole di queste persone ai prodotti e alle marche). Il termine inglese loyalty assomma fedeltà e lealtà, ma una distinzione è invece opportuna per capire come i due costrutti operino in modo diverso nelle intersezioni che si creano fra clienti, prodotti, brand, azienda, personale dell’azienda e in molti contesti fisici e online. La lingua italiana consente di fare una distinzione più precisa fra fedeltà e lealtà, termini che rappresentano scopi diversi motivati da ragioni e sentimenti differenti. Si tratta di due concetti non intercambiabili.

Fedeltà: deriva dal latino fidelitas. C’è una fedeltà spontanea che si instaura quando l’azienda agisce con impegno e dedizione oggettivamente riscontrabile sia a livello corporate sia per quanto riguarda prodotti e servizi, quando tiene comportamenti etici e trasparenti tali da convincere le persone a prestare fiducia e a dare a questa un’estensione nel tempo tanto da consolidarsi e diventare fedeltà. Nel mondo del lusso (in particolare quello core-business) conta molto anche l’heritage, la continuità storica, la capacità di avere stabilito uno stile riconoscibile, l’aver dato al brand un’identità inconfondibile, un posizionamento preciso. La soddisfazione (sia materiale per la performance del prodotto sia intangibile per il riverbero di prestigio che apporta il brand, per il messaggio che trasmette e di cui il cliente si appropria) alimenta ulteriormente la fiducia e quindi una costante fedeltà che chiameremo attitudinale. C’è anche una fedeltà indotta dai grandi investimenti in comunicazione che influenzano la decisione e portano a preferire prodotti di una definita marca e di continuare ad acquistarli (è la fedeltà comportamentale, condizionata da reward di diverso tipo). Va comunque considerato che nel lusso la fedeltà non è esclusiva, ma ripartita fra un limitato numero di marche i cui prodotti e servizi vengono giudicati equivalenti e perfettamente coordinabili. Per ogni categoria di prodotto, o di servizio ci sono 2/3 marche entro cui attenersi per la scelta. Comunque un numero molto limitato rispetto al largo consumo. Questo perché, a differenza di altri settori come appunto il largo consumo (che è prevalentemente domestico e poco visibile), i prodotti di lusso sono esibiti e quindi fanno integralmente parte della personalità, della propria identità. Va anche notato che nella moda non esiste più il total look che imperava negli anni ’80 e ’90, le riviste di settore, così come altre fonti di informazione incoraggiano anzi un mix di stili, quindi un mix di brand, rendendo la fedeltà più instabile e volatile. La scelta dei clienti si concentra fra alcune marche a cui si continua a dare la propria predilezione, però non esclusiva. Oggi le persone sono pronte a diventare critiche se l’azienda viene meno alle aspettative, i clienti mostrano un atteggiamento censorio che può portare alla revisione della fiducia, ponendo fine alla fedeltà.

Come detto, la fedeltà da spontanea (attitudinale) può divenire indotta (comportamentale) con varie forme di comunicazione e per i prodotti premium e prestige anche utilizzando iniziative di gamification, giochi con reward, long/short collection, tecniche di engagement, ma i clienti conservano comunque la capacità di valutare, sono sensibili alle oscillazioni del gusto, alle tendenze e stili nuovi, così potrebbero lasciare il brand per ragioni del tutto superficiali o imprevedibili. La fedeltà è meno salda rispetto alla lealtà, è più soggetta a comportamenti opportunistici, è attendista, si evolve in base a input esterni. In dottrina viene classificata come behavioral loyalty, ossia è una fedeltà di tipo comportamentale

Lealtà: deriva dal latino legalitas, rimanda quindi a leggi, codici, contratti, giuramenti, ossia a un impegno formale, continuativo, volontario di rispetto, a un patto sebbene non formale. La lealtà si applica in primis alla marca/azienda e al suo mondo di valori e significati (di cui prodotti e servizi sono la rappresentazione tangibile). È un’adesione spontanea e profonda che coinvolge aspetti cognitivi e affettivi, vi è da parte della persona che sceglie quella specifica marca un atto di identificazione totale. Il cliente trova in quella marca (in genere una sola per ogni categoria di prodotto, invece di tre o quattro quando parliamo di fedeltà comportamentale, soprattutto in riferimento a prodotti premium o di valore ancora più basso) una perfetta corrispondenza con il proprio sentire, quella marca entra profondamente nella vita della persona che, stabilendo un legame quasi esclusivo con essa, riceve in cambio una sorta di investitura da far valere nelle relazioni sociali.

In dottrina si distinguono quattro tipi di contratto che “legano” le persone all’azienda/brand e condizionano la fedeltà, o la lealtà:

  • relational
  • standard
  • transitional
  • captive.

Ben inteso si tratta di patti immateriali, interiorizzati nei comportamenti e negli atteggiamenti delle persone, patti caratterizzati da aspetti psicologici e da varie forme di scambio reciproco di risorse (è utile considerare lo studio che si riferisce al settore dei servizi “Seeing relationships through the lens of psychological contracts: the structure of consumer service relationship” pubblicato nel 2015 su Journal of Academy of Marketing Science da Lin Guo, Chuanyi Tang, Thomas Gruen). Le persone che manifestano una lealtà forte verso un brand sono quelle che accettano di essere connesse alla marca da un contratto di tipo relazionale. È un patto racchiuso nella propria vita interiore, radicato nella mente delle persone, in particolare quelle che si identificano profondamente con il brand. La relazione diviene cooperativa, aperta a uno scambio reciproco di valori tangibili e intangibili (da parte dell’azienda: l’eticità delle sue scelte, il valore di lungo termine del suo brand, la capacità e competenza nella produzione di beni e nell’erogazione di servizi, l’ascolto e la cura sincera dei clienti, mentre da parte dei clienti oltre alla lealtà vi è la fornitura di dati non meramente economici, un passaparola positivo, l’esibizione del prodotto nelle relazioni sociali fra pari che generano una sorta di endorsement della marca da parte del cliente). Nella relazione si incanalano contenuti che esprimono umori, sentimenti, opinioni e per questo sono di fondamentale importanza per aiutare l’azienda a evitare l’entropia, un decadimento di significato e di valore. Questa lealtà in dottrina è classificata come attitudinal loyalty.

Il cliente considera il contratto di tipo relazionale come ideale poiché alla pari, equilibrato nei benefici reciproci. La lealtà fornisce così alla marca il vero nutrimento di cui ha bisogno che non va ravvisato solo nelle vendite, ma proprio nel tipo di scambio conversazionale e reciproco che si instaura, nell’esaltazione e visibilità che il cliente elargisce alla marca.

Per inciso va ricordato che il passaggio da marchio (logo) a marca (brand) si ha quando una persona ne accetta gli enunciati, fa propri i suoi valori, ne condivide il fine e stabilisce un patto duraturo, sempre rinverdito della relazione volontaria ed affettiva che si consolida in virtù delle esperienze altrettanto effettive e gratificanti che si protraggono nel tempo. La marca si alimenta della lealtà del cliente, di questo forte sentimento che sottende un legame profondo che, per essere attivamente perseguito, ha bisogno di una relazione aperta, simmetrica. Il cliente leale, protagonista di un contratto relazionale, si riconosce perché è il solo in grado di provare un grande senso di perdita, un oggettivo dispiacere se dovesse cambiare marca (questo aspetto è ignoto a chi esercita la behavioral loyalty). Il core-luxury deve coltivare questa tipologia di clienti perché non solo sono quelli più economicamente redditizi (che possono spaziare su tutti i livelli e le articolazioni del lusso), ma soprattutto perché forniscono alla marca i feedback necessari per avere un futuro, suggerendo i contenuti necessari per rinnovarsi e adeguare la propria personalità e intelaiatura di senso, per mantenersi attuale e attrattiva.
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Come si coltiva la loyalty nei diversi livelli di lusso?

Premesso che la loyalty non è un sentimento monolitico e, come abbiamo illustrato, si distingue nettamente in fedeltà e lealtà, prima di lanciare qualsiasi intervento sui clienti attuali e potenziali, l’azienda deve capire quale atteggiamento stanno tenendo, o potrebbero manifestare verso i suoi brand. Va ricordato che il vero antagonista di qualsiasi forma di loyalty non risiede nelle campagne di comunicazione, nell’uso di influencer, nelle proposte lanciate dalla concorrenza, ma sta proprio all’interno dell’azienda, dipende dall’ignorare il tipo di loyalty dei propri clienti attuali e il tipo di loyalty che potrebbe essere costruita con quelli potenziali, considerando tutta l’estensione del lusso e i suoi vari gradi e livelli.

In pratica, c’è una fedeltà, o una lealtà conformata su ogni cliente, che va compresa per poter definire strategie efficaci e il più possibile personalizzate. Quando si individuano clienti che aderiscono a un contratto di tipo relazionale (e a tal scopo sono fondamentali le ricerche qualitative), bisogna mettere in campo un progetto atto ad alimentare in via continuativa la loro lealtà attraverso la total brand experience e questa si deve manifestare attraverso tutti i touchpoint on/offline (in letteratura si considerano 7 diversi tipi di esperienza (sensoriale, emotiva, cognitiva, pragmatica, lifestyle, relazionale offline, social online) che si fanno nella realtà fisica e nel mondo digitale, ergo non si può ridurre il significato di esperienza ai soli aspetti di usabilità o fluidità del sito di e-commerce dell’azienda). Va da sé che non ci sono solo questi clienti da considerare e altrettante cure (sebbene differenti) vanno prestate a tutti i clienti attuali e potenziali di tutti i livelli del lusso.

Il momento dell’acquisto è solo un passaggio, per quanto importante, della relazione con la marca, ma è con l’uso privato e pubblico che le persone fanno dei beni e servizi di elevato livello (si pensi a quanto siano longevi alcuni beni di lusso che persino si tramandano in famiglia) che si genera solido valore per la marca. Come accennato, il focus non deve essere solamente sulla vendita anche per il livello premium e prestige del lusso. Il brand motiva e guida l’acquisto, ma soprattutto apre a una relazione che a sua volta innesca il desiderio del riacquisto di un bene o servizio proprio di quel brand, spesso genera anche imitazione fra pari. Il customer care e tutte le iniziative rivolte agli acquirenti vanno integrate in un più ampio brand management.

In questo articolo ci concentriamo sui clienti attuali, che manifestano lealtà e aderiscono a un contratto di tipo relazionale.

Il contratto di tipo relazionale è intenzionale, appositamente cercato dal cliente che rende esplicita la sua volontà di preferire in assoluto il brand, ma in cambio il cliente richiede attenzioni dedicate e personalizzazione. È fondamentale la formazione del personale sul punto di vendita tanto quanto di quello che deve intervenire online. Nel lusso (soprattutto nel core-luxury e nel bespoke) la customer care è fatta di ascolto empatico, di dialogo, di tempo (molto tempo) dedicato. Le aspettative di cura personale si alzano a fronte del sostegno che il cliente con naturalezza, ma anche consapevolezza, porge (per esempio diventando spontaneo testimonial del brand nelle proprie cerchie di conoscenze, oppure endorser supportando il brand e i suoi prodotti in numerose circostanze). Il cliente che aderisce al contratto di tipo relazionale condivide tutti gli elementi della brand platform, anzi la tiene in vita poiché grazie ai feedback continui di informazioni e opinioni che rimanda all’azienda, le consente di mettere in atto quelle correzioni di rotta che sono indispensabili per mantenere il brand attuale. Il contratto di tipo relazionale viaggia nel tempo, si protrae a lungo per questo è necessario rendere disponibili touchpoint che consentano di recepire sempre un segnale di ritorno e dare una risposta pertinente e pronta. Invitare il cliente, farlo sentire importante, chiedere la sua opinione (per esempio in occasione di sue visite sul punto di vendita dove può apprezzare dal vivo l’attenzione dedicata) sono azioni basic. Le soluzioni di risposta automatizzata vanno evitate perché inadatte a cogliere tutte le sfumature di un vero dialogo quando si tratta di lusso (va sottolineato che anche quello a livello premium e prestige necessiterebbe di soluzioni human touch invece di affidarsi a virtual assistant).

Il contratto di tipo relazionale richiede reciproci scambi il più possibile simmetrici (se per i prodotti il post-vendita, le garanzie, le soluzioni di manutenzione giocano un ruolo importante per restituire al cliente il valore dell’acquisto fatto, per i servizi vanno costruite proposte di benefici immateriali incentrate sulle esperienze, soprattutto di tipo sensoriale/emotivo, il più possibile personalizzate e tali da consentire protagonismo). Va ricordato che in dottrina, si parla di “obbligazione morale a restituire”, a ricambiare. Così il cliente che viene gratificato con vantaggi extra rispetto all’acquisto (o anche senza un acquisto recente), oltre a rinsaldare la sua lealtà, si attiverà anche fungendo da naturale promotore del brand. Va ricordato che nel core-luxury molte aziende hanno sviluppato database dinamici che riescono a tenere traccia non solo di ogni acquisto fatto dai clienti (in qualsiasi punto vendita, in qualsiasi Paese), ma anche delle loro azioni dal vivo (come la partecipazione ad eventi) così come delle interazioni online. Soprattutto hanno messo in atto progetti di cim (customer involvement management) che portano il cliente “dentro” all’azienda. Si tratta di quattro diversi livelli di coinvolgimento che consentono da un lato al cliente di conoscere meglio l’azienda, il brand, i prodotti e i relativi processi produttivi e commerciali e dall’altro apportano all’azienda feedback specifici per migliorare e ottimizzare ogni attività, ma anche di sviluppare nuovi prodotti o servizi con la cooperazione del cliente. In estrema sintesi il cim si basa su:

coaching, l’azienda si limita a raccogliere opinioni e proposte che i clienti disseminano on/offline

advising, al cliente viene richiesto di verificare e quindi consigliare come un nuovo prodotto possa davvero servire lo scopo per cui è stato ideato

reporting, è un livello ancora più alto di coinvolgimento, il giudizio del cliente può portare alla conferma del prodotto come è stato ideato o a cambiamenti

partening è il livello di involvement più profondo, si ha quando il cliente è formalmente coinvolto nella co-progettazione di un nuovo prodotto o servizio (a questo fine si veda per esempio “Gli strumenti per il Design Thinking. La guida alle migliori tecniche per facilitare l’innovazione” di Michael Lewrick, Patrik Link e Larry Leifer pubblicato nel 2021 da LSWR che illustrano le oltre 260 modalità di coinvolgimento delle persone nei processi di co-creazione).

Utilizzato altrettanto frequentemente nei quattro livelli del lusso, è il cem-customer experience management. Si tratta di una strategia, che si avvale di strumenti e procedure, finalizzata a tracciare tutte le interazioni fra il cliente e l’azienda (ergo: brand, prodotti, servizi) al fine di conoscere e riconoscere le esperienze, come si formano e quali esiti producono. È la persona nel suo complesso che viene presa in considerazione (ergo non solo nel momento in cui agisce come acquirente o utilizzatore di un bene), le sue aspettative, i desideri. Sicuramente da cim e cem scaturiscono dati di grande valore analitico da cui ricavare insegnamenti e configurare decisioni. L’unicità e la specificità di ogni cliente viene così tracciata in modo totale e studiata (anche quando si tratta di milioni di soggetti), rendendo possibile la creazione di progetti molto precisi.

Se il contratto di tipo relazionale (come per tutte le forme di scambio) ha bisogno della comunicazione per prendere il via (ossia il brand si deve far conoscere e notare così che il potenziale cliente ne valuti le “affinità elettive” con la propria identità e stile), se per concretizzarsi ha bisogno dei primi acquisti (che devono entrare a far parte della manifestazione di sé che il cliente performa nella propria vita di relazione), per continuare tale contratto ha bisogno di suscitare coinvolgimento, di mobilitare sentimenti profondi.

In pratica il brand del lusso che volesse coltivare i clienti leali dovrebbe pianificare sia:

  • l’esperienze di marca: per far valere tutti gli elementi della brand platform con comunicazioni e iniziative (che possano rendere espliciti: l’apparato identitario, valoriale, simbolico, etico) così da generare un’esperienza interiore e personale con gli aspetti immateriali, ma profondamente significativi enunciati dal marchio. Un’esperienza interiore che porta la persona ad immedesimarsi con questi, ad aderire allo statuto del marchio, al suo manifesto
  • l’esperienze con la marca: che riguardano invece essenzialmente i prodotti, le performance tecniche, la validazione di attributi, la capacità di mantenere una promessa di prestazioni, non disgiunti dal riverbero sociale conseguente all’esibizione. È l’esperienza esibita, condivisa con altri, tangibile e concreta che la persona fa con la marca.

Naturalmente, nella realtà, qualunque progetto le deve far agire all’unisono la total brand experience.

Il contratto di tipo relazionale per svilupparsi ha bisogno di una miriade di tounchpoint che offrano soluzioni a due vie, ossia forniscano alle persone un canale di comunicazione abilitato a rendere effettivo il dialogo con la marca. Le relazioni necessitano anche di opportunità, occasioni e momenti dedicati fuori da un contesto di sola transazione commerciale, ambientate in esperienze lifestyle. Per riassumere, nel lusso vi sono quattro punti focali su cui investire, l’ordine in cui li presento non è assoluto, ma ogni azienda deve pensarli in funzione del proprio business quando lo scopo è di elevare il livello di lealtà nel contesto del contratto di tipo relazionale:

  • touchpoint on/offline devono diventare un ecosistema di ricezione e trasmissione, canale di comunicazione condiviso da azienda e clienti, si tratti del negozio, di un biglietto formale di invito, di una telefonata per chiedere la riparazione di un prodotto, in sintesi una miriade di soluzioni on/offline deve essere sempre disponibile per interagire, ricevere un riscontro, registrarlo e analizzarlo al fine di ricavarne la soluzione migliore per il cliente, ma anche per l’azienda considerando la natura del contratto di tipo relazionale che è in corso
  • personale in store fisici, ma anche in azienda capace d’essere autore e interprete dell’identità aziendale, ossia con un elevato grado di empowerment che consenta di comprendere i bisogni e rispondere aggiungendo anche il valore della consulenza
  • comunicazione da separare dalle grandi campagne pubblicitarie dirette ai vari target in funzione dei prodotti/servizi che coprono i vari gradi del lusso (premium, prestige, core-luxury), da separare anche dalla comunicazione istituzionale (sui grandi temi di csr/esg) e da quella finanziaria, si deve trattare di una comunicazione davvero mirata, inviata con finalità ben soppesate per non diventare inopportuna e molesta, dotata di strumenti per ricevere una risposta che possa abilitare un dialogo soddisfacente per entrambe le parti. I contenuti devono essere formulati in funzione degli interessi dei destinatari non di quelli dell’azienda, ossia non vi deve essere traccia di intenzioni commerciali di tipo push
  • opportunità di relazione per generare esperienze, situazioni di condivisione, dar vita a microcommunity che possano interagire con il brand. Va notato che i clienti del lusso (core-luxury e bespoke) lo vivono in contesti a loro pertinenti e naturali (circoli, club, eventi secondo il calendario delle “season” legate a riti sportivi, mondani, culturali e relativi luoghi d’elezione). È in questi contesti che la marca deve essere presente per condividere esperienze e momenti in cui far brillare gli elementi significativi della brand platform. TORNA AL SOMMARIO

 

 

Marilde Motta

Nella comunicazione dal 1978, in costante aggiornamento e approfondimento. Ho scelto le pubbliche relazioni come professione, dedicando attenzione a promozioni e direct marketing, su cui scrivo. Amo all’unisono il silenzio, i libri e i gatti. contatti@adpersonam.eu