L’arte ha incontrato il packaging diverse volte e non solo nel 1962 quando Andy Warhol trasformò la Campbell’s Soup Can in icona della Pop Art. Il packaging moderno nasce alla metà dell’Ottocento quando i primi prodotti industriali che recano un brand, ossia il segno distintivo del produttore che garantisce le caratteristiche del contenuto a una quantità standardizzata, cominciano ad avere distribuzione adatta per raggiungere masse enormi di consumatori.
Venire alla luce alla metà dell’Ottocento per il packaging ha significato mettere in secondo piano la funzione (se non per quel che bastava a gestire agevolmente la serialità industriale) e abbracciare le arti decorative allora in piena espansione e del tutto ubique in ogni ambiente domestico, edificio pubblico, mezzo di trasporto, ovunque ci fosse qualcosa da ingentilire, coprire, ingigantire, guarnire secondo lo spirito dell’epoca. Tanto che ancora oggi il packaging di quel tempo è oggetto di collezioni museali come quelle del Museum of Brands, Packaging, Advertising di Londra, che ci ricordano virtuosismi grafici, un’iconografia romantica quanto pretenziosa, ma così chiaramente rappresentativa degli stilemi che per decenni hanno caratterizzato prodotti e produttori.
C’è stata un’epoca d’oro per le arti figurative e, in primis, la grafica applicata al packaging e ai manifesti, il mezzo pubblicitario più capillarmente diffuso fra ‘800 e metà ‘900. La svolta decisiva avviene negli anni Sessanta quando il compito di illustrare il packaging passa di mano, dagli artisti ai grafici di professione. Mentre la forma diventa compito di packaging designer, spesso ingegneri che la pensano all’unisono con le macchine per imbustare, riempire, alloggiare prodotti liquidi e solidi, a breve e a lunga conservazione, resistenti e fragili.
In anni recenti, non si tratta più di illustrare la confezione, ma di stabilire un ordine a una quantità crescente di obblighi di legge (composizione del prodotto, peso, composizione e smaltimento del contenitore, avvisi e raccomandazioni ecc.) in mezzo a cui il brand deve emergere insieme al claim (quell’affermazione tutta esclamativa e sintetica su cui i copywriter si dannano). In pratica cambia la sequenza, prima vengono l’ingegnosità e l’ingegnerizzazione, la funzionalità e l’usabilità, così estetica, stile e linguaggio visivo si devono fare largo per trovare collocazione e ragione. Un addio all’arte? Ai connubi con gli artisti?
Qualcuno comincia già a fare marcia indietro e l’occasione sono le nuove opportunità aperte dalla tecnologia digitale che consentono di stampare su qualunque superficie e materiale del packaging da uno a milioni di immagini e di segni grafici cambiandole e combinandole per forma e colore, suddividendole in serie persino numerato come i multipli d’arte. La stampa digitale consente milioni di abbinamenti e varianti e poi c’è il fattore inchiostro (che offre effetti tattili a rilievo, lampi di luce, senso di profondità e messa in scena del colore), c’è il fattore sostenibilità (tutto a sempre più basso impatto ambientale e comunque recuperabile e riciclabile), c’è il fattore personalizzazione (per dar corpo a una visibilità che vuole gratificare l’ego dei clienti, packaging mostrati come oggetti identitari), c’è il fattore esperienza sensoriale, ludica, sociale e socializzante (instagrammabile e condivisibile con un universo di sconosciuti); non certo da ultimo viene il fattore collezionamento che ha varie facce: dalla grafica, sovente affidata a un artista, che trova spazio sulla confezione senza cambiarne la struttura, ma la integra con segni riconoscibili capaci di reinterpretare i canoni della marca, l’heritage e il mondo valoriale fino alla creazione di una capsule collection, talvolta collegata a un evento celebrativo per il brand, a cui si aggiunge il restyling dell’imballaggio secondario, il tutto arricchito da libricini e oggettistica a tema oltre all’immancabile qr code, o la realtà aumentata.
Per dare alle aziende una panoramica delle opportunità che il graphic design applicato al packaging dei prodotti, ma anche alla sede dell’azienda e ai contesti di retail può offrire ne parliamo con Stefano Epis, artista nell’ampio dominio del design, della grafica e del mondo dei segni, ma anche professionista della consulenza (e quindi con il senso del budget, degli obiettivi e dei tempi).
Type art, printing art e packaging che fil rouge ci vedi?
Il fil rouge che attraversa il mio lavoro è “l’evoluzione del segno verso l’esperienza totalizzante”: la type art rappresenta il gesto primordiale, l’autenticità del segno; la printing art è la materializzazione tecnica, il “corpo” che prende forma; il packaging diventa la narrazione emotiva, il dialogo con il quotidiano. Tutti e tre i livelli condividono la filosofia di trasformare l’arte da contemplazione passiva a esperienza vissuta, creando ponti emotivi tra creazione artistica e vita quotidiana. Quando creo come type artist parto sempre dal gesto grafico primordiale, quell’energia selvaggia che nasce dalla mano e si trasforma in lettera, in messaggio artistico attraverso tagli, rotazioni, ricerca continua di armonia tra le forme. È lì che nasce l’essenza artistica: nel momento in cui il pensiero diventa segno visibile, ma ancora grezzo, scomposto, autentico. La printing art rappresenta l’apice del flusso creativo con innumerevoli soluzioni: il mio segno grafico, nato analogico, prende corpo attraverso tecniche di stampa digitali che si plasmano su ogni singolo progetto artistico, come un abito sartoriale. La mia concezione artistica di packaging travalica il semplice contenere un prodotto, è volontà pura di narrare storie inedite e generare emozioni attraverso superfici, forme, texture che dialogano tra loro.
Per esempio?
Quando realizzo una nuova opera, non penso mai solo alla funzione decorativa, penso a come quei segni possano trasmettere un’esperienza emotiva indelebile a chi li osserva e, successivamente, come utilizzarli per contaminare il quotidiano, trasformando oggetti come sottopiatti o abbigliamento in portatori inconsapevoli di emozioni positive. Oggi packaging design significa total packaging (il contenitore, i sistemi di chiusura, le etichette ecc.) e poi c’è il packaging secondario, ossia la scatola spesso altrettanto determinante per dare valore al packaging primario e al prodotto da collezionare.
Su cosa preferisci fare interventi di grafica?
Amo lavorare su tutto quello che può diventare ponte emotivo tra il mio segno artistico e la vita quotidiana delle persone. Ogni superficie rappresenta un’opportunità per rompere la monotonia urbana e superare gli schemi convenzionali attraverso la mia arte: wallpaper che rivestono interi ambienti, grafiche che vestono spazi e li trasformano in gallerie diffuse. Con la computer animation, la motion graphic e la kinetic typography si generano stili, effetti dimensionali e di profondità, illusioni ottiche, torsioni e distorsioni, movimenti dei caratteri, nonché sviluppo di font inediti. Applicabili a video istituzionali, di prodotto, a packaging e etichette, talvolta abbinabili a effetti ludici come la realtà aumentata con cui le persone possono interagire, talaltra integrati nella gamification che impegna i consumatori in giochi online.
Come vedi l’utilizzo dell’animazione nei progetti di grafica? Un consumatore che diventa co-autore?
Credo che oggi ci siano infiniti strumenti tecnologici per far interagire sempre di più il consumatore con il prodotto. Come tutte le cose, non bisogna eccedere. Io credo che la parola importante da usare sia comunque “tempo”. Oggi tutti, giovani e vecchi, non hanno più pazienza e la soglia di attenzione è sempre più bassa. Ma quello che mi affascina davvero è che, se usata bene, si potrà portare il consumatore a diventare co-autore e protagonista in progetti real time. È una rivoluzione molto vicina alla filosofia di Joseph Beuys quando diceva “ogni uomo è un artista”, oppure a Rirkrit Tiravanija che trasforma i visitatori in protagonisti: il fruitore non è più passivo, ma diventa parte attiva nelle sue installazioni artistiche. Non sarà più “io artista/azienda creo, tu consumi”, ma “io innesco un processo creativo, tu lo completi con la tua unicità”. È trasformare ogni prodotto in una possibilità di connessione autentica attraverso l’uso della tecnologia sarà forse il modo più efficace per creare quelle “piccole epifanie”, per far vivere a ogni persona un’esperienza emozionale e divertente.
Far entrare l’arte nel quotidiano è la strada che alcuni retailer stanno già esplorando…
Ci sono negozi di brand del fashion di lusso che ospitano quadri del salotto di famiglia del fondatore, ci sono insegne che hanno dato alle umili e servizievoli shopping bag un tocco di creatività artistica facendole illustrare da street artist, ci sono brand sensibili al riciclo che sponsorizzano la waste art con cui generare installazioni fatte con scarti di lavorazione, ci sono insegne della gdo che affidano la creazione di capsule collection a creativi di varia estrazione. Tuttavia in questa tipologia di interventi il gioco è essenzialmente guidato dall’azienda, quando invece la narrazione del brand e sul brand si potrebbe espande e raccoglie l’ibridazione fra generi e media, fra autori e fruitori. Come nel caso della machinima (crasi di machine + animation), una forma ibrida di cinema, arte, videogioco. Quando l’azienda ha una brand platform ben definita e forte, segni identitari radicati nella memoria collettiva può aprirsi a forme collaborative libere gestite anche dai fruitori finali, in fondo i consumatori sono proprio degli sperimentatori nati di qualsiasi prodotto. Quindi il messaggio da far passare è “scopriamo come l’arte possa trasformare prodotti in esperienze memorabili, spazi lavorativi in luoghi d’ispirazione e brand in vere identità culturali”.