Il senso di appartenenza dei club 2.0

Megacommunity e club esclusivi hanno in comune il senso di appartenenza. Quel che li distingue è il come si diventa membri. Per avere il proprio profilo su Facebook, la più grande community al mondo, bastano pochi clic. Sebbene lontani dall’esclusività, i social network svolgono un compito importante come cassa di risonanza per le attività dei membri dei branded club. Questi sono gruppi creati e gestiti da un marchio. Hanno una lunga storia e nel tempo non hanno mai perso smalto, prova della loro efficacia nel nutrire le relazioni di lungo periodo. Nei club (più o meno elitari e ristretti) il senso di appartenenza è una leva motivazionale decisiva. Ci sono anche barriere all’ingresso che rendono ancora più desiderata l’appartenenza: talvolta si paga una quota, i requisiti vengono verificati, i club più esclusivi richiedono la presentazione fatta da un socio (e naturalmente ci sono condizioni ben precise per mantenere lo status d’iscritto). I club sono gruppi strutturati con una gestione centralizzata, che amministra un database (per tracciare la storia di ogni aderente) e propone un calendario di eventi e iniziative dal vivo. Molti club, non solo quelli sportivi delle tifoserie, hanno segni distintivi, in primis la membership card (con relativa cornucopia di vantaggi), poi spille e magliette per riconoscersi. È la strada scelta per coltivare la preferenza perpetua e la fedeltà convinta e duratura da molti brand del settore automotive (auto e moto, caravan e roulotte) e del largo consumo (proprio i brand del food sono stati i primi a utilizzare i membri dei propri club anche per testare in anteprima i prodotti). Questi club, caratterizzati da noti loghi, offrono vantaggi personalizzati e favoriscono il networking attivo, inoltre sollecitano i membri ad agire come brand ambassador. Il settore beauty ha addirittura creato il fenomeno delle subscription box, che si è poi esteso ad altri settori (gastronomico in particolare). La moda, quella dei marchi autorevoli del prêt-à-porter, è stata antesignana nel creare una relazione continuativa, coccolando le clienti con inviti esclusivi, presentazione delle collezioni in anteprima, invio di prestigiosi cataloghi, ma ha gestito in modo molto rigido il concetto di comunità, ovvero di scambio diretto fra i membri. Sul versante opposto, quello di favorire il networking e il dialogo many-to-many, si stanno invece muovendo i marchi della moda giovane convinti anche che conviene gestire i membri in chiave di microinfluencer, spronandoli a interagire sui social. Le banche che offrono il servizio di private banker fanno leva su raffinatissime proposte per riunire piccoli gruppi di clienti: sono iniziative più vicine al concetto di club all’inglese (senza l’antipatica tradizione di proibire alle signore di varcare la soglia del vestibolo). Se la fedeltà delle catene distributive è veicolata dalle fidelity card, quella coltivata nei branded club fa leva sulla membership attiva delle persone.

Andrea Demodena

Dopo la frequenza di Economia e commercio in Cattolica, si iscrive a Lettere Moderne, presso l’Università Statale di Milano, laureandosi a pieni voti con una tesi in storia dell’arte contemporanea. Come giornalista ha collaborato con Juliet, Art Show, Tecniche Nuove, Condé Nast, Il Secolo XIX, Il Sole 24Ore. Dal 2000 si occupa di marketing e promozioni. Dal 2014 è direttore di Promotion.