Si può cavalcare l’ecommerce per aumentare le vendite e fare profitti

In un contesto caratterizzato dalla multicanalità in cui i confini del mercato si espande oltre i limiti geografici delle aree di gravitazione dei punti di vendita fisici, è possibile difendere l’intero perimetro del proprio assortimento, lottando per la share of wallet del cliente, per il suo customer lifetime value e, in definitiva, per la sua fedeltà

Spesso il termine ecommerce assume le valenze di un sinonimo di rivoluzione digitale. In realtà, mentre nella fruizione di un contenuto d’intrattenimento c’è una bella differenza tra vedere una partita di calcio su Dazn o allo stadio e tra acquistare un cd o scaricare il relativo fi le digitale dalla rete sul computer, in quanto on e offline rappresentano alternative ben distinte, nell’ecommerce di beni non è proprio così. Infatti, banalizzando, l’alternativa è che gli articoli comprati online si muovano dal magazzino o dal negozio fino alla casa del cliente o che, viceversa, sia il cliente a recarsi al negozio, per ritirare gli articoli ordinati nelle aree prestabilite del punto di vendita, in un locker o sul piazzale. Nell’uno e nell’altro caso, fino a quando non sarà implementato il teletrasporto, l’esperienza rimarrà comunque ibrida tra l’on e l’offline. E lo stesso vale tra l’altro anche per l’approccio omnichannel, in quanto i touchpoint attraverso i quali le marche e le imprese di distribuzione tradizionali possono interagire con la clientela sono tanto fisici che digitali.

Eppure, come ben tutti sappiamo, l’anno passato abbiamo assistito a un’accelerazione dell’evoluzione dei canali, dei media e degli strumenti digitali in molti settori

Non è il caso che a metà 2021 sottoponga alla vostra attenzione ancora una volta i dati relativi alla crescita straordinaria registrata dall’ecommerce lo scorso anno, da quello del largo consumo in particolare. Parto dall’osservazione che, mentre in Gran Bretagna anche le insegne che hanno ottenuto significativi incrementi di volume nei canali on e offline non hanno conseguito risultati economici particolarmente significativi, per usare un eufemismo, negli Stati Uniti sono state numerose le catene che hanno fatto bene, coniugando la crescita dei volumi e della quota del canale digitale, spesso sopra il 10% anche nel largo consumo, con un aumento o, perlomeno, una buona tenuta della profittabilità. Si vedano i casi di Kroger e Albertson’s parlando di catene di supermercati e di Walmart e Target per quanto riguarda i “big boxes” del general merchandise. Un formato più vicino a quello degli ipermercati di casa nostra, che invece lo sviluppo dell’ecommerce l’hanno subìto piuttosto che cavalcarlo, soprattutto per quanto riguarda quei reparti dove già avevano ceduto terreno nei confronti dei category killer fisici prima e digitali poi.

Così, mentre il mercato retail negli Stati Uniti ha registrato nel 2020 una crescita del 6,9% e l’ecommerce del 44%, Walmart ha fatto segnare un + 8,6% complessivo e un + 79% del canale online, che è arrivato a pesare per l’11,6% sul fatturato totale, garantendo alla catena il secondo posto in termini di fatturato tra gli etailer del paese. Target, invece, è arrivata al settimo posto con + 19,3% complessivo e addirittura un + 145%, dell’ecommerce. Per entrambe le insegne i risultati del primo trimestre 2021 hanno confermato il momento di straordinario successo. Walmart negli Stati Uniti, a parità di rete, ha visto il fatturato crescere del 6%, tasso ben superiore allo 0,9% atteso dagli analisti; l’ecommerce, invece, ha segnato un + 37%. Per Target il fatturato è cresciuto del 23,3%, con le vendite a parità di rete balzate al + 18%; l’ecommerce ha segnato + 50% sempre sul periodo corrispondente. Nel complesso si stima che l’insegna abbia eroso alla concorrenza almeno 1 miliardo di dollari di fatturato. Ma questo non operando in perdita, anzi.

Il margine netto è stato di 2,1 miliardi di dollari, rispetto ai 284 milioni del periodo corrispondente del 2020 e ben al di sopra delle previsioni degli analisti

Mi piace citare questi due casi di retailer non specializzati nel settore dei cosiddetti prodotti grocery, dove il 2020 ha rappresentato un anno positivo per quasi tutti, perché hanno saputo difendere l’intero perimetro del proprio assortimento, lottando per la share of wallet del cliente, per il suo customer lifetime value e, in breve, per la fedeltà. Riuscendo in taluni casi anche ad attrarre nuovi clienti in un contesto caratterizzato dalla multicanalità in cui il place si espande oltre i limiti geografici delle aree di gravitazione dei punti di vendita fisici, invitando al “banchetto” etailer nazionali e, soprattutto, internazionali. Questo stesso place online, che citavo poc’anzi, presenta inoltre un’altra peculiarità, in quanto consente al pubblico di confrontare simultaneamente e in un battito di ciglia molteplici offerte per quanto riguarda l’assortimento, le caratteristiche dei singoli prodotti, i servizi ancillari associati all’acquisto e, ultimi ma non meno importanti, i prezzi e le eventuali promozioni. Tutte informazioni il cui reperimento richiederebbe molto più tempo ed energie se fosse necessario visitare una serie di negozi fisici. Un place che sarebbe riduttivo circoscrivere al tradizionale sito di vendita o di presentazione della propria offerta, in quanto è andato declinandosi semprepiù in una molteplicità di canali che non esistevano solo 15 anni fa, tra motori di ricerca, social network, fornitori di servizi di posta elettronica, podcast o trasmissioni in streaming. E senz’altro ne dimentico qualcuno.

Per ampliare le occasioni d’acquisto dei suoi prodotti, Target ha caricato due dei suoi cataloghi su Instagram Checkout.

Così, per esempio, Target ha caricato due dei suoi cataloghi su Instagram Checkout, mentre Sephora sullo stesso social network ha 20 milioni di follower, ai quali vende gli articoli di 80 marche. Inoltre, ispirati forse da quanto fatto da Qvc in televisione, le marche stanno cominciando a utilizzare gli streaming dal vivo “shoppable”, come ha fatto Walmart su TikTok o Amazon con il suo canale Making The Cut. Altri touchpoint e altri canali di vendita dove è necessario riconoscere i clienti e parlare loro in modo personalizzato, forse più funzionali alla moda, all’elettronica di consumo, all’arredamento o alla bellezza che non al largo consumo, il cui processo d’acquisto è connotato maggiormente da ripetitività e scarso coinvolgimento emotivo. Sempre la multicanalità e la complementarietà di un place che potrebbe stare ovunque, magari in qualche cloud, consentono oggi di superare il vincolo dello spazio disponibile sugli scaffali e tra le corsie dei negozi. Perché, allora, ridurre l’offerta dell’ecommerce a una selezione di quella fisica, magari per garantire la tempestività del servizio, imponendo al cliente un vantaggio in cambio di un sacrificio? Non diciamo sempre che uno dei punti di forza degli etailer è rappresentato dalla coda lunga di referenze che si possono permettere di proporre? E un assortimento più ampio non contribuisce forse a garantire l’ottimizzazione della share of wallet? E, infatti, ci sono casi interessanti a livello internazionale di grandi distributori che hanno adottato proprio questo approccio. Ahold Delhaize, per esempio, ha aggiunto altre 80/100.000 referenze grocery e del general merchandise al proprio negozio online.

Hudson’s Bay ha ampliato l’assortimento sul proprio marketplace alle categorie dell’elettronica e degli articoli sportivi, che si aggiungono così ad abbigliamento e arredamento.

Mentre Hudson’s Bay, che oltre all’omonima catena di grandi magazzini controlla Lord & Taylor, Sacks Fifth Avenue e Home Outfitters, ha ampliato l’assortimento sul proprio marketplace alle categorie dell’elettronica e degli articoli sportivi, che si aggiungono così ad abbigliamento e arredamento, ospitando poi centinaia di nuove marche con migliaia di prodotti, anche per posizionarsi in un’area di esclusività rispetto ai concorrenti piùmainstream. Sempre all’insegna di offrire di più ai propri clienti.

Come sappiamo, la conoscenza dei comportamenti di acquisto dei clienti e magari anche dei loro interessi consente alle imprese distributive di suggerire articoli complementari rispetto a quelli comprati abitualmente. Si tratta di una prassi quotidiana da parte di Amazon. E, se sugli scaffali dell’alimentare le esperienze di crosselling sono piuttosto frequenti, nulla impedisce che ciò possa essere proposto anche per altre categorie di prodotto, come ricordo fece parecchi anni fa Iper La grande i, portando le referenze della detergenza tra le lavatrici o viceversa. Se questo approccio, volto a moltiplicare le occasioni d’acquisto, si può adottare in modo spesso oneroso all’interno dei punti di vendita fisici, diventa molto più semplice online, ragionando in termini di aree di bisogni dei clienti invece di partire dal modo in cui sono organizzati i compratori. Problema che ancora esiste se, purtroppo, anche primarie catene usano nel menù dell’ecommerce espressioni come “drogheria alimentare”, di scarsissimo significato per la clientela. Soprattutto se poi al suo interno capita di trovare i succhi di frutta refrigerati, in totale contrasto con il concetto di drogheria e anche qualche detersivo, evidentemente incompatibile con l’aggettivo alimentare.

Per affrontare la multicanalità occorre adottare il punto di vista del cliente, non quello dell’organizzazione e del suo modo abituale di pensare al business

Ma, al di là di questi svarioni che possono capitare quando si gestiscono migliaia di codici ean, resta il fatto che per affrontare la multicanalità occorre adottare il punto di vista del cliente, non quello dell’organizzazione e del suo modo abituale di pensare al business, che alla lunga non aiuta le vendite in tempi di cambiamenti repentini. Mi piace a tal proposito citare una recente iniziativa di Walmart, che ha invece cominciato a modificare l’organizzazione dei reparti in store e tutta la segnaletica utilizzando la logica usata nell’app, che meglio rappresenta l’approccio customer centric. Concludendo, ho spesso la sensazione che i distributori considerino l’ecommerce come una medicina in grado di prolungare di un po’ la loro vita, almeno fino a quando non sarà qualcun altro a doversene occupare. Il che rappresenta una risposta inadeguata agli attacchi sempre più frequenti che da ogni parte erodono frazioni di share of wallet, a partire dai servizi di consegna a domicilio di prodotti per qualche aspetto problematici. Pensiamo da una parte all’acqua e alle bevande – alcoliche e analcoliche – ingombranti e pesanti.

Ma diffusa è anche la consegna a domicilio dei surgelati da parte di società specializzate nella gestione della catena del freddo. Ora, poi, si stanno moltiplicando gli etailer nel comparto dei cibi e dei prodotti per i piccoli animali domestici. Per non parlare delle società che offrono i meal box e di quelle che portano a casa frutta e verdura. Anche se poi il vero rischio, già enunciato almeno a livello internazionale, è che tutti i prodotti a lunga conservazione finiscano per essere sempre più canalizzati nell’ecommerce, in quanto, essendo sempre più “convenience” non richiedono una selezione personale e accurata da parte del cliente. Il che creerebbe una voragine in grado di risucchiare quello che sempre gli americani considerano il centro del negozio, in contrapposizione con il perimetro, dove sono concentrati i banchi serviti e quelli a libero servizio del fresco, nonché le eventuali aree destinate alla ristorazione. Non a caso il mantra di tante insegne è rappresentato oggi dal focus sul fresco e sulla marca privata, considerate due armi in grado di contribuire a creare distintività e a fidelizzare. Che in un prossimo futuro potrebbero anche rimanere le uniche nell’arsenale dei distributori del largo consumo. Con tutte le conseguenze che deriverebbero dalla perdita del grocery, con il conseguente crollo di fatturato e la maggior difficoltà nel rendere profittevoli punti di vendita fisici caratterizzati da costi fissi elevati.

Se i grandi magazzini e i category killer non hanno avuto il tempo di reagire nel modo più appropriato alla concorrenza dell’ecommerce e dei player digitali puri, il largo consumo ha avuto la fortuna di poter fare tesoro delle sventure altrui e degli esempi di aziende eccellenti che, perseguendo una strategia coerente di medio periodo, hanno saputo cavalcare con successo la rivoluzione in corso. È quasi inutile sottolineare, però, come la sfida possa essere vinta solo da chi saprà bilanciare l’esperienza del mestiere di distributore con le competenze di chi è esperto delle soluzioni e degli strumenti digitali di front end così come di back office che consentono la multicanalità e l’omnicanalità. E che le vecchie e le nuove professioni all’interno delle aziende del settore potranno contribuire al loro successo solo adottando quell’approccio customer centric che pone i comportamenti, gli atteggiamenti e le attitudini dei clienti – e di quelli migliori in particolare – alla sorgente di qualsiasi processo decisionale e di qualsiasi implementazione a livello operativo. Rimettere in discussione tutti gli assunti sedimentatisi nel tempo e il modo di fare business as usual rappresenta una prassi che le imprese dovrebbero adottare sempre e che diventa imprescindibile in un momento di così grande discontinuità.

Filippo Genzini

Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com