Il goodwill di una marca di prodotti grocery rappresenta, com’è ben noto, essenzialmente tutto quel valore immateriale che il brand ha costruito nel tempo, al di là dei suoi beni fisici come stabilimenti, macchinari o scorte di magazzino. È quella ricchezza intangibile che fa sì che un marchio valga molto di più della semplice somma delle sue componenti materiali. Diversi aspetti, a tal proposito, si intrecciano tra loro. Innanzitutto, c’è la riconoscibilità del marchio, premessa della fedeltà della clientela, ovvero quella propensione ad acquistare sempre lo stesso brand in base alla sua reputazione.
L’ipotesi di base è, allora, che la relazione tra reputazione di un brand e rapporto qualità/prezzo sia bidirezionale: cioè, inizialmente un buon rapporto qualità/ prezzo costruisce la reputazione attraverso la fiducia dei consumatori, ma una volta consolidata, la reputazione stessa influenza la percezione della qualità, creando un “effetto alone” che giustifica prezzi “giusti” e a volte più alti. In sintesi, reputazione e rapporto qualità/ prezzo si alimentano reciprocamente in un equilibrio delicato che richiede coerenza nel tempo. Il goodwill di una marca – misurato come percezione del rapporto qualità/ prezzo – non è però un attributo in trinseco, stabile e generalizzabile. È una variabile contestuale che viene continuamente rinegoziata all’interno dell’ambiente competitivo specifico di ciascuna insegna retail.
Possiamo supporre, allora, che due consumatori che acquistano lo stesso prodotto della stessa marca in due insegne diverse possano sviluppare valutazioni circa il rapporto qualità/prezzo significativamente differenti, non per caratteristiche intrinseche del prodotto, ma per effetti sistemici del contesto retail. Tradizionalmente, industria di marca e distribuzione hanno operato con due assunzioni implicite: l’industria presume che la brand equity costruita attraverso comunicazione, qualità e innovazione sia trasferibile integralmente su qualsiasi canale; la distribuzione presume che le decisioni assortimentali, di pricing e display abbiano effetti che si limitano alla performance commerciale (sell-out), ma non alla percezione della marca da parte dei clienti/consumatori.
Esiste però una dimensione più sottile, quasi invisibile al consumatore medio, che opera nel momento stesso in cui questo si trova di fronte alla scelta tra diverse alternative: il modo in cui le marche vengono presentate e posizionate le une rispetto alle altre. È qui che entra in gioco l’effetto decoy, un fenomeno di economia comportamentale magistralmente studiato da Dan Ariely, che rivela come le nostre decisioni d’acquisto non siano del tutto razionali e come le aziende possano sfruttare questa irrazionalità per orientare le scelte dei consumatori. L’effetto decoy si manifesta quando l’introduzione di una terza opzione apparentemente irrilevante modifica sistematicamente le preferenze tra due precedenti alternative.
Il caso più celebre, documentato da Ariely, riguarda la strategia di pricing adottata da The Economist per i suoi abbonamenti: proponendo un’opzione cartacea a 125 dollari e una combo digitale+cartaceo allo stesso prezzo, accanto a un’opzione digitale a 59 dollari, la rivista rendeva la combo irresistibile, poiché chi era disposto a pagare 125 dollari per il solo cartaceo avrebbe percepito come un affare straordinario ottenere anche l’accesso digitale allo stesso prezzo. L’opzione cartacea fungeva da “esca” (decoy), da punto di riferimento che faceva sembrare l’offerta premium molto più vantaggiosa di quanto non apparisse in sua assenza. Questo principio, è noto come “dominanza asimmetrica”, e opera in modo pervasivo nella nostra vita quotidiana, spesso senza che ce ne rendiamo conto. Ma è nel contesto della grande distribuzione, di fronte allo scaffale del supermercato, che l’effetto decoy rivela tutta la sua complessità e le sue implicazioni per il valore delle marche.
L’esempio dei risotti: quando il decoy diventa evidente. Consideriamo un esperimento apparentemente banale: a un gruppo di 70 famiglie fu proposto di ricevere all’interno di un programma di test una delle tre marche di risotti a pronta cottura – Star, Knorr e Riso Gallo – ognuna con un proprio prezzo. Gallo era la marca con il prezzo più alto; Star e Knorr avevano un prezzo più basso e simile. La famiglia che avrebbe scelto la marca più economica avrebbe ricevuto il rimborso della differenza di prezzo. A un altro gruppo venne proposta, con le medesime condizioni, la scelta tra Star, Gallo e Scotti e a un terzo gruppo Star, Knorr e Scotti. Nella condizione di equilibrio iniziale, le scelte dei clienti si distribuiranno secondo una certa proporzione, determinata dalla percezione dei prezzi relativi, dalla fedeltà alla marca e dalla qualità percepita. In un secondo turno, alle famiglie vennero proposte combinazioni diverse. Poiché i prezzi relativi rimasero gli stessi avremmo dovuto attenderci che le scelte precedenti per ogni marca rimanessero più o meno identiche.
Al contrario, dopo la sostituzione di Knorr con Scotti appaiato a Gallo, le scelte in percentuale di Star e Gallo mutarono in modo statisticamente significativo e opposto. Viceversa, anche quando Gallo lasciò il posto a Knorr, vi fu uno spostamento delle loro quote. In breve, l’affiancamento, ceteris paribus, a una marca di un brand simile sembra produrre degli effetti percepibili in termini di acquisti. Dan Ariely, scherzosamente, ne traeva un suggerimento per i suoi studenti: se volete far colpo su una ragazza, cercate di uscire con un amico che vi somiglia, ma che sia un po’ più brutto. Non molto più brutto, solo un po’!
Come si collega tutto questo al goodwill della marca? Il legame è più profondo di quanto possa sembrare. Quando un’azienda utilizza l’effetto decoy in modo etico e trasparente sta in realtà aiutando i consumatori a navigare la complessità delle scelte. In mercati saturi, dove le alternative sono molteplici e le differenze sottili, un’opzione di riferimento ben posizionata può ridurre l’ansia da scelta e facilitare decisioni che, alla fine, soddisfano realmente il consumatore. Prendiamo il caso di Apple, che offre i suoi iPhone con diverse capacità di memoria: l’opzione intermedia è spesso posizionata in modo tale da far sembrare quella superiore un investimento ragionevole. Non si tratta di un inganno, ma di una guida che aiuta il consumatore a comprendere meglio il valore dell’offerta premium.
Quando questa strategia è coerente con il posizionamento complessivo del brand e con la qualità effettiva del prodotto, essa contribuisce a costruire il goodwill: i consumatori percepiscono di aver fatto un buon affare, scelgono l’opzione che meglio risponde alle loro esigenze (anche se non lo sapevano prima) e sviluppano una relazione positiva con la marca. Similmente, Starbucks ha costruito parte del suo successo sulla progressione delle dimensioni: tall, grande, twenty (20 oz). Ovviamente solo quell’azienda potrebbe dirci se la presenza della dimensione media fa apparire la twenty come la scelta “giusta”, oppure se la twenty spinge verso la versione media a scapito della tall. Conclusioni: nel caso del grocery retail, in cui si trattano decine di migliaia di prodotti, distinguere i vari effetti decoy tra marche è davvero arduo. Tuttavia, il sospetto che attraverso le promozioni di prezzo, il posizionamento delle marche private, lo spazio dedicato ecc., il Goodwill delle marche leader ne risulti alterato non è immotivato. Quindi, come consuetudine del mondo scientifico, si può aggiungere che altri studi si rendono, nel merito, necessari.

