Nella gestione dati la sfida è diventare customer centric

Con la riduzione dell’utilizzo di dati provenienti da terze parti, conseguenza delle scelte di colossi quali Apple e Google, assumeranno sempre più valore i first e gli zero party data, ma soprattutto risulterà essenziale la capacità, ancora scarsamente presente nelle aziende, di saper costruire un rapporto personalizzato con la clientela.

Il mercato della pubblicità digitale globale secondo eMarketer nel 2020 valeva oltre 378 miliardi di dollari. E si trattava ancora di un oligopolio, con la quota di mercato di Google al 27,5%, quella di Facebook al 22,3%, Alibaba all’8,6%, Amazon al 5,2% e Tencent al 2,9%. In particolare, si stima che la vendita di pubblicità rappresenti l’80% circa dei 183 miliardi di dollari di entrate di Alphabet, casa madre di Google. È allora quasi inutile sottolineare che stiamo parlando di interessi in gioco di dimensioni enormi. Ed è anche comprensibile la titubanza proprio da parte di Google di fronte all’impegno assunto – in modo forse spontaneo o forse “spintaneo” – di cessare la vendita a terze parti dei cookie relativi alle navigazioni degli utenti sul motore di ricerca, spostando la scadenza dall’inizio del 2022 alla seconda parte del 2023.

Un maggior orientamento alla clientela parte anche da decisioni di natura organizzativa

Se per molti i cookie rappresentano un fenomeno ancora relativamente nuovo, in realtà gli utilizzi più lontani nel tempo risalgono alla prima metà degli anni Ottanta, quando una tecnologia simile è stata impiegata per la prima volta per identificare un client da parte di un server. Una soluzione adottata per monitorare i comportamenti di navigazione degli utenti nelle proprietà digitali di aziende e istituzioni soprattutto a partire dall’inizio del nuovo millennio. La pubblicità digitale ha nutrito la propria crescita con questi “biscotti”, servendosene per indirizzare in modo efficace gli investimenti delle aziende, fino ad arrivare in molti paesi ad assorbire quote ormai superiori al 50% dei budget complessivi destinati alla comunicazione. Una crescita impetuosa che ha portato gli operatori a sviluppare in rete contenuti volti a massimizzare il traffico sulle proprie proprietà, tanto attraverso le scelte editoriali quanto grazie alla disponibilità da parte del pubblico di proporre post.

Volendo essere oggettivi, se è vero che tale modo di comunicare risulta spesso invasivo, per l’eccesso di stimoli visivi cui è sottoposto il fruitore di qualsiasi pagina internet, arrivando a esemplificare in modo perfetto il concetto d’interruption marketing coniato ormai qualche decina d’anni fa per i mass media tradizionali, è altresì evidente che la comunicazione digitale presenta vantaggi concreti in termini di misurabilità dei risultati e di interazioni con il target che quella tradizionale non consentiva, permettendo oltretutto di giungere in pochi click a un atto di vendita. Il rovescio della medaglia, anche prescindendo dal basso gradimento da parte del pubblico di queste forme di comunicazione mirate in modo grezzo, è rappresentato dalle preoccupazioni relative all’utilizzo dei cookie in relazione alla tutela della privacy delle persone, manifestatesi fin da quando la conoscenza della loro esistenza è diventata di dominio pubblico.

Anche se solo negli anni recenti le istituzioni politiche si sono impegnate con determinazione nella difesa dei cittadini, con l’entrata in vigore del Gdpr in Europa e di strumenti simili in alcuni stati americani, come per esempio il Ccpa in California. In parallelo, così, sono nati motori di ricerca che consentono di navigare nel totale anonimato, inducendo anche Google a offrire funzionalità simili. Per non parlare delle applicazioni che le pubblicità proprio le bloccano. Segnali importanti e tutti nella medesima direzione che, tuttavia, rendevano ancora accettabile la situazione tanto per i mezzi di comunicazione quanto per gli investitori pubblicitari. Nulla in confronto alle recenti decisioni da parte di Apple e Google di non dare più accesso – seppure con modalità differenti – ai dati dei relativi utenti, che rischiano invece di rivoluzionare il settore, e non solo per quanto riguarda la pubblicità programmatica. Si pensi, per esempio, che con iOs 15 si potrà attivare la funzione Mail privacy protection per le app di Apple Mail usate per leggere la posta elettronica, grazie alla quale tutti i messaggi risulteranno come aperti, rendendo inutilizzabile uno degli indicatori classici del direct marketing digitale, ovvero il tasso di apertura.

Se i dati provenienti dalle terze parti – prevalentemente editori e colossi del mondo digitale – verranno meno, assumeranno sempre più valore le informazioni raccolte sulla propria clientela da parte delle aziende stesse. E, ovviamente, quelle che hanno un rapporto diretto sono privilegiate. Forrester ha definito First Party Data quelli derivati dalla rilevazione di comportamenti della clientela effettiva e potenziale su tutte le proprietà o i touchpoint dell’azienda. Dal sito all’app, all’ecommerce, al negozio, passando per il servizio clienti, l’assistenza tecnica ecc. Complementari a questi sono gli Zero Party Data, altre informazioni fornite in modo spontaneo o dietro sollecitazione dal pubblico, che consentono spesso d’interpretarne il modo di comportarsi. Una condivisione motivata dalla promessa di benefici pratici e magari esclusivi, così come dall’aspettativa di poter fare esperienze migliori con la marca o il prodotto stesso. E, a tal fine, un orientamento sinceramente customer centric aiuta senz’altro a creare le condizioni per un dialogo a due vie proficuo e duraturo. McKinsey, che parla di data relationship management, razionalizza questa attività individuando quattro fasi sequenziali da seguire per ottenere il consenso dei clienti all’utilizzo dei loro data, garantire la sicurezza delle informazioni cedute, mantenere nel tempo la disponibilità a condividere le informazioni e, infine, definire i vantaggi concreti per chi autorizza il trattamento dei propri dati a fini marketing o commerciali.

Le aziende sono preparate? Non sembrerebbe proprio leggendo il 2021 Annual marketing report di Nielsen, dal quale si desume che solo il 13% delle aziende medie (con budget di marketing fino a 10 milioni di dollari) e addirittura solo il 2% di quelle più grandi ha posto la personalizzazione dei rapporti con la clientela come strategia prioritaria all’interno del marketing mix. La mancanza del commitment da parte dei vertici aziendali può così vanificare i progressi compiuti dalla tecnologia abbinata alla cultura di marketing nel fornire soluzioni sempre più efficaci. Perché un maggior orientamento alla clientela parte anche da decisioni di natura organizzativa, quali magari la volontà o meno di subordinare le scelte fatte a supporto del marketing alle regole dell’enterprise data platform, progettata e realizzata dalla direzione sistemi per rispondere a esigenze completamente differenti.

In merito all’uso delle tecnologie la customer data platform deve essere accessibile ai ruoli aziendali che ne possono trarre vantaggio

Una customer data platform deve, infatti, essere alimentata oltre che da dati transazionali, anche da tutte quelle altre informazioni utili per la profilazione della clientela, magari considerate di scarso interesse per il resto dell’azienda. E deve essere accessibile a una serie di funzioni aziendali che ne possono trarre vantaggio anche senza che queste debbano dotarsi di data scientist o ricorrere alla direzione sistemi per fare qualsiasi elaborazione. Ancora, deve potersi integrare a valle con gli strumenti martech finalizzati alla creazione e distribuzione di comunicazioni personalizzate realizzate su larga scala. Si tratta dunque di fare scelte a proposito delle soluzioni tecnologiche che tengano conto delle esigenze specifiche del marketing customer centric e, allo stesso tempo, non contribuiscano a creare ulteriori silos all’interno dell’azienda. Ovviamente sempre nel rispetto delle norme vigenti nell’ambito della tutela e sicurezza della privacy.

E chi non dispone di una relazione diretta con la clientela effettiva e potenziale? Ovviamente, gli editori continueranno a sfruttare le registrazioni sulle loro proprietà digitali e le iscrizioni alle newsletter per raccogliere le informazioni indispensabili per creare dei target da mettere al servizio degli inserzionisti. Ma in soccorso delle aziende e dei centri media arrivano anche le società specializzate nel monitoraggio di quanto avviene in rete, in particolare per quanto riguarda la fruizione dei diversi mezzi di comunicazione, i cui grandi campioni creati nel corso degli ultimi vent’anni e composti da persone consenzienti, permetteranno di continuare a utilizzare delle segmentazioni granulari con induzione dei comportamenti a livello predittivo.

Molte aziende potranno fare accordi di filiera chiedendo la collaborazione dei distributori

Ancora, molte aziende potranno fare accordi di filiera chiedendo la collaborazione dei distributori che presidiano i canali di vendita, per attingere alle informazioni raccolte nei loro wallet garden. Avendone già parlato in un precedente articolo, ricordo solo che nel corso degli ultimi due anni molte imprese distributive omnichannel negli Stati Uniti hanno cominciato a offrire i propri servizi media ai fornitori dell’industria. Oltre alla già citata Amazon, parliamo di aziende come Walmart, Target, Kroger, Albertsons, Walgreens, Cvs, Dollar Tree, Best Buy, Home Depot. Insomma, per i professionisti del marketing customer centric e per gli esperti di marketing intelligence non mancherà il lavoro nell’immediato futuro.

Filippo Genzini

Ho sempre lavorato nel settore dei servizi innovativi di marketing per le aziende del largo consumo e - in particolare - del retail, sia sul fronte della marketing intelligence sia su quello della comunicazione, con una focalizzazione sull’approccio customer centric. Hobby prediletti: la scrittura e la musica. genzini@admirabilia.it www.ilcommissariozarotti.com