I disruptor della gdo sfidano i leader

686La loro strategia è prima di tutto quella di avere uno o più punti di eccellenza che attragga il parco clienti dei concorrenti. E i leader reagiscono sfruttando la propria capacità di attuare forti promozioni sui prodotti industriali massificati. Così il mercato si decompone e si riassesta per ospitare le nuove realtà

Capita raramente di osservare un fenomeno e dire: “Accidenti! Sta accadendo proprio quel che è scritto in quel libro”. Mi riferisco ai testi di Clayton Christensen e Joshua Gans circa le disruptive innovation, che mi viene naturale estendere allo scenario del settore grocery e drugstore descritto dalle ricerche complementari al Cx Store Award di Promotion.

Le performance dei nostri disruptor nazionali e locali, chiamati Eurospin, Tosano, Gros, Acqua & Sapone, Tigotà, per citare alcuni esempi, sono ormai note, ma la business community è reticente a parlarne. I leader di mercato in base alla architectural knowledge che hanno sviluppato negli anni non riescono a razionalizzarne l’azione erosiva. Gli attacker dello status quo sono giustamente schivi; non vogliono richiamare l’attenzione su di sé, e tentano di prolungare il periodo di disattenzione altrui per sviluppare il loro processo di crescita dirompente.

Ma cosa distruggono? In realtà nulla, perché bisogna intendersi sulla parola “distruzione” in questo contesto. Semplicemente, trasferiscono potere di mercato ai consumatori, assecondandone le loro libere scelte su dove e come spendere quattrini, godendo di un maggior value for money.

Che cosa ne ricavano i disruptor? Semplice: un goodwill crescente, un riconoscimento del miglior rapporto tra qualità e prezzo, cioè il fattore di una crescita più veloce. Per spiegare questo fenomeno, partiamo dal presupposto per cui le performance (o posizionamento) di una catena dipendono da variabili come la varietà degli assortimenti, l’atmosfera dei punti di vendita, la comunicazione, i servizi resi ai clienti, la rapidità alle casse, gli incentivi offerti tramite loyalty card, concorsi, omaggi ecc. oltre che, a livelli più alti, l’ecologismo, l’animalismo, il solidarismo, lo spazio concesso alle filosofie dietetiche e al biologismo e così via.

Ne discende che questa cura del cliente sviluppata in tanti anni non dovrebbe far temere rivali. Il management delle catene leader, infatti, ha affinato tali competenze e sensibilità verso la clientela e manifesta la volontà di fare bene e meglio, prestando attenzione a tutti i reparti. Tuttavia è proprio questo il problema, visto che il goodwill verso le grandi insegne storiche si sta sfilacciando.

Un primo indizio dalla ricerca condotta da Amagi per Promotion è che un goodwill non solo elevato, ma anche distribuito equamente tra i reparti, sembra essere tipico solo di Esselunga. Le altre insegne ricevono, in genere, valutazioni alternanti. Metaforicamente, è come se nell’orchestra ci fossero degli eccezionali performer mischiati ad altri mediocri.

Attenzione, però: mediocrità è un concetto relativo e per la distribuzione il giudizio su qualità e prezzo varia nello spazio-tempo, a differenza del prodotto industriale di gran marca standardizzato e omologante. Fare acquisti nella parte nord di Piacenza è diverso dall’acquistare nell’area sud, dove ci sono le due Esselunga della città. Il benchmark di chi vive a Orzinuovi, vicino a Tosano, è diverso da quello di chi vive a Cremona e così via.

Orbene, poiché far bene tutto sembra impossibile, i disruptor adottano la strategia ben nota agli americani: farsi percepire come eccellenti in qualcosa e curare tutto il resto, ma prima di tutto avere un punto di eccellenza che attragga il parco clienti dei concorrenti. Utilizzando le parole di Christensen e Gans possiamo allora dire che, quando l’attaccante scopre un punto di forza in un suo reparto, comprende che, potenziandolo, può aumentare il proprio conversion rate più del mercato in cui opera e sovrapporsi al parco clienti dei vicini.

Il disruptor si pone su una traiettoria di miglioramento dell’offerta che richiama clienti delle catene posizionate più in alto come performance. Per esempio, dopo aver guadagnato un forte goodwill per l’ortofrutta, sacrificando eventualmente margini, esso si dedica a migliorare il percepito della macelleria o della gastronomia che appesantiscono lo scontrino, pur essendo un attivatore della frequenza della visita meno potente della frutta-verdura.

Il leader storico interpreta la realtà guardando in basso secondo il filtro della sua storia e della sua cultura aziendale. Lo sfidante guarda in alto, ma le due prospettive sono asimmetriche. Il leader valuta i bassi margini dello sfidante e la sua quota di mercato che sono tali da non giustificare un cambio radicale e doloroso di strategia.

Lo sfidante è allettato dai margini più alti del leader e dalla dimensione della sua quota di mercato. Accade allora che la dinamica espansiva degli attaccanti ripaghi con un parco clienti che aumenta assieme al loro conversion rate. Il leader finalmente prende atto del tutto e rivaluta l’idea di scendere sul terreno dello sfidante. Ma lo fa utilizzando le armi che gli sono congeniali: per esempio, se lo sfidante sfrutta il reparto dell’ortofrutta grazie a una diversa supply chain e giocando sui margini, il leader sfrutta il suo potere di mercato verso i fornitori per attuare forti promozioni sui prodotti industriali massificati.

A questo punto la situazione si chiarisce: lo sfidante prosegue imperterrito la sua crescita più veloce dei leader; continua a rafforzare la propria diversità e la propria qualità; apre nuove location replicando il modello.

È quel che capita negli Usa ogni volta che apre un Trader Joe’s e lo scenario locale viene alterato. La conseguenza è che l’azienda che attacca dall’area del value for money porta con sé strutture di costo che le fanno raggiungere redditività con margini lordi più bassi, grazie a una business model architecture divergente. I discount si trasformano in lifestyle store; i category killer diventano specialisti; muta il posizionamento dei formati; la clientela si segmenta.

Nel caso di settori come il chimico-casa e la cura della persona i leader, dopo un decennio di logoramento, hanno rinunciato all’idea di un restyling valutando che category killer come Acqua & Sapone, Tigotà ecc. abbiano sviluppato vantaggi insormontabili negli acquisti e nella logistica, nelle promozioni e nella fidelizzazione del cliente e hanno di fatto abbandonato la competition, cercando, in certi casi, di avviare al più commoventi copie dei loro sfidanti.

Anche in altri campi la prosecuzione diligente del “business as usual” sembra l’unica soluzione, salvo crescere per fusioni e acquisizioni, in un contesto logorante d’incessante guerra dei prezzi. Il risultato tendenziale è che, nell’insieme, il valore del mercato diminuisce; cambiano le supply chain e le relazioni tra industria e distribuzione; i clienti-consumatori hanno più scelte e prezzi più bassi a disposizione e lo scenario competitivo si decompone e si riassesta per ospitare le nuove realtà. La wheel of retailing non gira più come prima perché ora le ruote, sotto vario nome, diventano tante e separate tra loro.

 

LA STRATEGIA VINCENTE DEI DISRUPTOR

Negli Usa Costco scelse la strada dei prezzi imbattibili da warehouse; Whole Foods il rigore bio-ecologista; localmente, Stew Leonards’ i prodotti freschi a marca propria; Gelsons la raffinatezza alimentare per le medium/upper class di Los Angeles. I disruptor italiani, parimenti, stanno seguendo quella strada. Tosano propone un assortimento profondo e l’uso delle “extreme bargain items”; Gros-Pewex un reparto macelleria sovradimensionato ed Eurospin – il caso più interessante di tutti – un reparto ortofrutta il cui rapporto percepito qualità/prezzo si distacca dagli altri. In questo modo il disruptor si pone su una traiettoria di miglioramento dell’offerta, che richiama clienti delle catene posizionate più in alto come performance.

Daniele Tirelli