L’homo emptor è anche ludens, faber, ma il crm non lo sa

Marilde Motta01/10/2025

Dagli anni ’80, quando l’ict ha messo radici e si è progressivamente espanso e propagato creando polloni (per usare un’espressione da pollice verde), la commercializzazione di qualsivoglia bene o servizio è profondamente cambiata. Non solo i pagamenti hanno potuto essere tracciati attraverso terminali pos, carte di debito e carte di credito nominalmente riferite a una persona, ma dagli aspetti meramente transazionali si è potuto risalire alle abitudini e stili di consumo.

Le carte fedeltà della gdo e di altri retailer (carburanti, farmacie, abbigliamento, profumerie, ristoranti ecc.) nonché sistemi di tracciamento sempre più sofisticati (per esempio collegati alla pubblicità digitale come il search advertising ecc.) hanno mostrato sia i consumi spontaneamente ripetuti e correlati a una marca preferita sia quelli incentivati da offerte speciali sia ancora quelli estemporanei e d’impulso nonché quelli rari e costosi. In pratica, il tracciamento e la misurazione delle performance di vendita hanno preso il sopravvento su tutto.

Se le persone si rispecchiano in quello che acquistano nell’uso privato tanto quanto nell’uso pubblico e social che fanno dei beni, c’è comunque un iter di cui bisogna tenere conto che non sempre è legato e finalizzato all’acquisto, ma alla sola conoscenza di novità, a una semplice presa di visione curiosa delle offerte: si guarda la pubblicità online, perfino si apre un qr code e si accede a un sito aziendale, ma poi tutto finisce lì, non si procede né a una scelta né tanto meno a un acquisto. Si tratta di un comportamento diffuso che un tempo era riservato alle vetrine dei negozi mentre si passeggiava oziosamente (e per cui i francesi hanno ideato l’efficace espressione figurata “faire du léche-vitrines”), un comportamento che ora è passato online, di cui va tenuto conto poiché la curiosità (con un pizzico di vanità), e non certo la necessità di comprare, muove questo comportamento (lo si vede sovente nel fashion quando le consumatrici acquistano online, ricevono il prodotto, si fanno dei selfie da postare online, poi rendono tutto e recuperano quanto speso).

La teoria di un customer journey lineare e progressivo in cui il consumatore viene spinto dentro a un “imbuto” non è mai stata credibile; le persone sono imprevedibili anche quando sembrano abitudinarie e metodiche, soprattutto le persone non sono perennemente orientate a fare acquisti (appunto prediligono il “leccare le vetrine”, dare un’occhiata, al più rovistare).

La consapevolezza delle proprie necessità è spesso sconvolta dalla voglia di provare l’inedito, cambiare marca o punto di vendita. La paura di spendere male e sprecare risorse per qualcosa di diverso dal solito è messa a tacere con indulgenza dalle motivazioni che muovono il desiderio (si veda la profonda analisi del costrutto del desiderio in “The psychology of desire” di Wilhelm Hofmann e Loran F. Nordgren edito nel 2016 da The Guilford Press). Molto spesso le persone vogliono solo osservare, documentarsi, fantasticare, o sognare senza nessun progetto di acquisto. Comprare merci e servizi non è il fine, è solo una tappa che va inglobata in un contesto più ampio che si chiama vita, ossia momenti, situazioni, condizioni, occasioni e tutto quello che accade quotidianamente e nel progredire del tempo. Le persone si trovano di volta in volta a essere acquirenti per sé e per altri che curano, appassionati amanti di un brand che non potranno mai acquistare, utenti di servizi pubblici e privati, frequentatori assidui di un negozio, perdigiorno che vagano in spazi che dovrebbero offrire loro esperienze (per dirla con Jean-Marie Floch, li si potrebbe definire flâneur si veda “La Génération d’un espace commercial: une expérience de pratique sémiotique“), o nulla di tutto questo poiché nelle ventiquattrore c’è molto altro da fare, pensare, lavorare, dormire e la lista delle situazioni è assai lunga.

L’homo emptor, la persona che pensa solo a fare acquisti, è un’invenzione del marketing che ha attribuito al consumo un posto eccessivo nella vita delle persone come se non si potesse vivere indipendentemente dagli acquisti, dagli atti di consumo, dall’esibizione di prodotti (e qui non è necessario scomodare Herbert Marcuse e il suo saggio “One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society”). Eppure le aziende sono fermamente convinte che tutto ruoti attorno all’homo emptor, l’ideal-tipo di acquirente, la persona che dedica tempo, energie fisiche e mentali, risorse economiche solo alle compere e al consumo come se non avesse altro da fare nella vita.

Per inseguire, conoscere e tentare di convincere questo “fantasma di acquirente” sono nate diverse teorie, ne scegliamo quattro: crm (customer relationship management), cim (customer involvement management), cem (customer experience management), ckm (customer knowledge management).

Passiamo in rassegna queste soluzioni che, negli anni, sono state integrate con strumenti on/offline per raccogliere dati, farli confluire in silos e analizzarli. Tuttavia come vedremo l’aver puntato di volta in volta su relazione (relationship), coinvolgimento (involvement), esperienza (experience), conoscenza (knowledge) non coglie pienamente la volontà e i comportamenti delle persone che non possono essere ridotte a homo emptor, alla sola dimensione di acquirente e consumatore.

SOMMARIO

Il crm, strumento imperfetto

Il cim, strumento volonteroso

Il cem, strumento sensibile

Il ckm, strumento completo

Il crm, strumento imperfetto

Il crm è un insieme di soluzioni ict che non fanno altro che tracciare i pagamenti e le azioni di acquisto, frequenza e altri aspetti come per esempio la preferenza per beni scontati e offerte speciali (soluzioni atte a stimolare l’adesione opportunistica e la sensibilità al prezzo). Anche se l’acronimo crm significa “gestione delle relazioni con i clienti”, in realtà l’unico tipo di relazione considerata è quella basata sulla transazione, ossia prodotto o servizio contro denaro. Manca totalmente uno scambio reciproco che coinvolga più profondamente le due parti, un accenno di conversazione. Una relazione piena dovrebbe invece mostrare una sorta di legame tra una persona e un’azienda (sia essa produttrice o distributrice di beni/servizi) e/o un brand (con tutto ciò che comporta in termini di consapevolezza, preferenza, affettività, coinvolgimento e molto altro da parte delle persone). Con l’uso dei sistemi automatizzati di crm l’azienda rimane più interessata al registratore di cassa e al tracciamento delle transazioni economiche, talvolta collegate alla carta fedeltà, dati che diventano obsoleti e inutili in tempi brevi, poiché non c’è certezza che lo stesso parco clienti continui a fare gli stessi acquisti delle stesse marche e nello stesso punto di vendita, anzi non c’è certezza che le persone continuino a essere clienti (va ricordato che la fedeltà alle marche è ripartita su molte per ogni categoria di prodotto/servizio e anche la fedeltà ai retailer è ripartita su molte insegne di tante diverse tipologie food e non-food, servizi, utility ecc., si tratta di una fedeltà multipla e ormai molto diluita).

Troppo raramente vengono considerati i comportamenti psicologici e le motivazioni che generano commenti sui social media, il wom e altre azioni che indicano un seppur minimo impegno del consumatore con il brand in modo positivo/negativo. E quando lo sono queste rilevazioni comportamentali avvengono separatamente dal crm e senza avviare una vera e propria relazione bidirezionale (i commenti negativi che vengono postati online, pur generati talvolta da un prodotto difettoso o da un disservizio, restano gestiti separatamente dal crm e non forniscono feedback che potrebbero tornare utili alla produzione, al centro di ricerca e sviluppo, o alla comunicazione). I touchpoint sono ancora quasi tutti separati fra di loro e unidirezionali, il customer care è talvolta delegato in outsourcing ed è destinato essenzialmente a raccogliere lamentele o è impegnato a risolvere problemi (solo veramente pochi brand riescono a usarlo per mostrare concretamente impegno, generosità e empatia verso i clienti, addestrando opportunamente il personale invece di usare Ai agent o altri artificial assistant che le persone rifiutano).

Allo stato attuale nel crm manca totalmente la cultura della relazione di tipo relazionale, h2h, dedicata all’ascolto, quella che abilita le persone (nei loro diversi ruoli di acquirente, consumatore diretto, preparatore, somministratore, suggeritore, sperimentatore ecc.) a far sentire la propria voce all’azienda giacché non vengono loro forniti gli strumenti di comunicazione two-way. Prima di definire le intenzioni dell’azienda verso i propri clienti andrebbe chiarito quale concetto di relazione vuole adottare verso di loro. In letteratura accademica si contano 7 macro tipologie di relazione, in sintesi:

  1. mutual: è una relazione paritaria, equilibrata con diritti e doveri reciprocamente stabiliti e accettati
  2. communal: condivisa e armonica, con regole non scritte, ma accettate, è la relazione all’interno delle community legate per esempio a un brand
  3. covenantal: è una relazione basata su reciproche promesse per raggiungere uno scopo comune, è il tipo di relazione adatta quando, per esempio, l’azienda chiede ai propri consumatori di impegnarsi per raggiungere insieme obiettivi di csr
  4. contractual: è un tipo di relazione asettica, tipica della transazione monetaria, è uno scambio do ut des che si riscontra talvolta in campagne promozionali e di loyalty
  5. symbiotic: può essere simbiotica in senso negativo quando una delle parti approfitta dell’altra, oppure in senso positivo quando entrambe le parti si scambiano benefici
  6. manipulative: il termine indica chiaramente il lato oscuro e pericoloso della manipolazione e questo tipo di relazione è vietata da norme sia nell’ambito della pubblicità sia in quello delle attività degli influencer o in altre forme di comunicazione
  7. exploitative: anche questo tipo di relazione basata sullo sfruttamento senza concedere nulla in cambio è inaccettabile in un mercato libero dove i consumatori hanno la possibilità di scegliere fra una gamma pressoché infinita di prodotti e servizi a prezzi differenziati; le situazioni di monopolio in ambito di Unione Europea sono state eliminate da tempo e si evitano anche situazioni in cui un’azienda possa trovarsi in posizione dominante.

La maggior parte delle relazioni gestite dalle aziende sono marcatamente opportunistiche poiché (soprattutto nel largo consumo dove i beni sono ormai omologati e facilmente intercambiabili) sono le stesse aziende che inducono i consumatori a cogliere vantaggi temporanei. Naturalmente vanno fatte le debite differenze fra settori industriali e dei servizi e le altrettanto doverose differenze fra:

  • beni a basso coinvolgimento di spesa e psicologico
  • beni ad alto coinvolgimento psicologico, ossia beni e servizi costosi che richiedono una scelta ponderata per evitare una perdita di denaro e/o di prestigio giacché gli aspetti psicologici sono profondamente coinvolti. Oppure si tratta di beni non costosi, ma destinati a persone di cui si ha cura e quindi impegnano moralmente (per esempio cibi per l’infanzia, alimenti per componenti della famiglia che hanno intolleranze o allergie)
  • prodotti dei retailer sovente a basso coinvolgimento economico nel food, ma non sempre e non per tutte le categorie di prodotti e marche anche nel non food poiché il coinvolgimento emotivo e di responsabilità è sempre presente
  • prodotti unbranded e commodity che tuttavia hanno trovato il modo di rendersi riconoscibili attraverso i retailer, ergo si stabilisce una qualche forma di identità che rende meno anonime queste referenze e meno vaga le carica di benefici pratici e valori immateriali (spesso legati al lifestyle di tipo frugale o equo e solidale, scelte volutamente alternative ai prodotti di marca e non condizionate da basso potere di acquisto dei consumatori).

I comportamenti delle aziende verso i clienti potenziali e attuali sono improntati con alta frequenza al tipo contractual anche se, dal lato del cliente verso il brand/azienda, ci potrebbe essere un atteggiamento di attaccamento, di preferenza sentita, talvolta di vero affetto che non viene colto. Soprattutto i comportamenti delle aziende stanno diventando sempre più automatizzati affidati a bot, artificial agent, virtual shop assistant, macchine che possono simulare una empatia artificiale (sul tema è utile l’articolo “Artificial empathy in marketing interactions: bridging the human-AI gap in affective and social customer experience” scritto da Yuping Liu-Thompkins, Shintaro Okazaki e Hairong Li nel 2022 per il Journal of the Academy of Marketing Science), il tutto con la promessa rivolta al cliente di rendere fluido il suo processo di acquisto, ma rilevando di fatto solo le sue transazioni monetarie.

La carenza di contatti e scambi che possano coinvolgere la sfera emotiva e relazionale del cliente porta poi a investire in soluzioni di engagement forzato, ancora una volta destinato a far ripetere acquisti a fronte di forme di reward e di intrattenimento ludico (gaming e gamification degli acquisti) per convincere il cliente. Con il crm l’azienda persegue la redditività generata da ogni cliente nel lungo periodo, ma nel tempo queste persone saranno ancora clienti se continuano a essere considerati solo per il valore dello scontrino?

L’imperfezione del crm è nella contraddizione con cui il termine “relazione” viene inteso e impiegato. Non si tratta di una relazione che dà luogo a un dialogo, ma considera solo la transazione commerciale, fra l’altro sempre più limitata nella prospettiva analitica poiché sempre meno persone accettano la tracciabilità dei propri acquisti. Nel tempo è cresciuta la consapevolezza della propria privacy, del valore dei propri dati e, sebbene i consumatori posseggano abitualmente molte carte fedeltà di diversi retailer e aziende di servizi o public utility nonché siano aperti a cogliere occasioni vantaggiose, non autorizzano più facilmente il trattamento dei propri dati, sono consapevolmente attenti e rifiutano cookie.

Oggi l’obsolescenza e l’inadeguatezza del crm a cogliere ogni aspetto sull’asse della relazione azienda-brand-cliente è evidente a fronte di altri sistemi emersi in questi ultimi anni (come il ckm). Tuttavia nelle aziende c’è una forte resistenza al cambiamento dovuta agli ingenti investimenti fatti nel tempo. Investimenti in programmi di software più o meno sofisticati che restano però separati per cui le varie divisioni dell’azienda non riescono veramente a beneficiare della condivisione dei dati (che comunque sono parziali e riferiti solo a determinati comportamenti dei clienti).TORNA AL SOMMARIO

Il cim, strumento volonteroso

Con il cim (customer involvement management) si tenta di stabilire una nuova fase di conoscenza dei clienti, che implica un’apertura alla relazione di scambio da parte dell’azienda e la messa in campo di capacità di ascolto e accoglienza (persino di intimacy e complicità) del consumatore. L’attenzione si concentra sul coinvolgimento (involvement).

Sperimentato nel mondo del lusso, in base alla necessità di dare un ruolo di primo piano al cliente per un servizio ineccepibile, il cim può essere messo a disposizione di qualsiasi azienda che voglia effettivamente non solo orientarsi verso il cliente, ma includerlo nella vita dell’azienda, rimodulando prodotti e servizi ove i clienti lo richiedessero, o operare con loro il co-design di concetti innovativi sia di prodotti sia di servizi. Un coinvolgimento che non è solo emotivo (sebbene implichi un’affettività e un attaccamento motivato verso il brand da parte del cliente), ma anche razionale poiché prodotti, processi, soluzioni (che riguardano, tra l’altro, l’ideazione e la formulazione, la lavorazione, la comunicazione, la vendita, l’impatto sociale e ambientale, le riparazioni, le garanzie, lo smaltimento dei prodotti ecc.) sono finalizzati alla completa e consapevole adesione del cliente all’ideologia del brand (e dell’azienda che lo garantisce).

Il cim si afferma gradatamente alla metà degli anni 2000, ma parte da basi molto precedenti (per esempio l’inclusione del cliente in tutti i processi era un principio già sistematizzato negli anni ’50 da Toyota e dalle teorie di total quality) che riconoscono il grande vantaggio dell’ascolto e del coinvolgimento attivo del cliente a monte prima che inizi il processo produttivo, quindi ancora nella fase di indagine dei bisogni e dei desideri (aspetti che vedremo accomuna il cim al cem). Spesso i consumatori rilasciano spontaneamente commenti, constatazioni, idee, riscontri che nessuno raccoglie (sia per mancanza di strumenti di dialogo a due-vie sia per disinteresse), ma che potrebbero dare vita a soluzioni profittevoli per l’azienda. Le ricerche mostrano che il consumatore integrato nei processi aziendali (e ben coordinato con il reparto ricerca e sviluppo interno di ogni azienda) riduce il margine di rischio di fallimento di un prodotto completamente nuovo, lo stesso dicasi per il re-design di quanto già disponibile. Il cliente cooperativo opera come acceleratore del processo creativo (è alla base delle procedure di npd-new product development) e le ricadute sono state misurate anche in termini di customer satisfaction e di loyalty (si veda per esempio lo studio “Investigating the Relationship between Customer Involvement Management and Marketing Performance in the Manufacturing Industry” redatto da Walter Brown Ateke e Chijindu H. Iruka nel 2015 e pubblicato nel International Journal of Research in Business Studies and Management)

Come opera il cim? Il coinvolgimento del cliente nei processi aziendali si attua in 4 modi a diversa intensità di partecipazione:

  1. coaching è la forma di involvement più superficiale, ossia il cliente non è coinvolto all’interno dell’azienda e questa si limita a raccogliere opinioni e proposte che i clienti disseminano (soprattutto online, ma non solo per esempio comunicando un suggerimento al personale del punto di vendita, o facendo notare al customer service quale altra funzione potrebbe assolvere il prodotto se leggermente modificato)
  2. advising è una forma di involvement in cui al cliente viene richiesto di verificare e quindi consigliare come il nuovo prodotto possa davvero servire lo scopo per cui è stato ideato, guidandone anche la commercializzazione (per esempio suggerendo la tipologia di canali e le modalità di vendita)
  3. reporting è la fase dell’involvement in cui al cliente è richiesto di provare il prodotto, dare un feedback (che poi può portare alla conferma del prodotto come è stato ideato o a cambiamenti)
  4. partening è il livello di involvement più profondo, si ha quando il cliente è formalmente coinvolto nella co-progettazione di un nuovo prodotto o servizio (a questo fine si veda per esempio “Gli strumenti per il Design Thinking. La guida alle migliori tecniche per facilitare l’innovazione” di Michael Lewrick, Patrik Link e Larry Leifer pubblicato nel 2021 da Lswr che illustrano le oltre 260 modalità di coinvolgimento delle persone nei processi di co-creazione).

Il cim è utilizzato, ovviamente con modalità diverse, ma identiche nello scopo, sia nel b2b sia nel b2c. Quando viene coinvolto il consumatore finale ci sono sfaccettature di psicologia che vanno tenuti presenti. A questo punto è necessario fare una duplice digressione prima relativa al concetto di involvement (e relativa psicologia del consumatore) e poi vedremo due aspetti che riguardano il brand (la personality e l’anthropomorphism).

Il cim prende in carico il cliente come persona, con i suoi comportamenti e atteggiamenti, con sentimenti, propensioni, preferenze, ma anche avversioni, pregiudizi. La transazione economica, le vendite vengono dopo come conseguenza, in primo piano l’involvement mette la cura e la relazione, il cliente “deve sentirsi bene con la marca”.

L’involvement è strettamente correlato all’engagement, all’attaccamento emotivo a un brand, alla sua personalità (su cui impatta anche il fenomeno dell’antropomorfismo della marca come vedremo più avanti). Il tutto ha ricadute sulla relazione con la marca, l’esibizione della marca, la preferenza per il prodotto di una specifica marca, la fedeltà alla marca.

Sul costrutto dell’involvement ci sono da molti anni studi e ricerche, la pioniera negli studi è Judith Lynne Zaichkowsky che nel 1986 ha pubblicato l’articolo “Conceptualizing Involvement” nel Journal of Advertising, mentre l’anno precedente aveva già sondato l’argomento con “Measuring the Involvement Construct” pubblicato sul Journal of Consumer Research.

Judith Lynne Zaichkowsky ha praticamente tracciato la strada per comprendere come si forma il coinvolgimento e come opera (per esempio innescando l’engagement/impegno, la loyalty/fedeltà non solo comportamentale, ma anche attitudinale). In estrema sintesi vi sono 3 fattori da considerare all’unisono:

  1. la persona, il suo sistema di valori, precedenti esperienze, altri aspetti che possono renderla disponibile al coinvolgimento, o al contrario la definiscono come persona avoidant (si veda per esempio lo studio di M. Mende, R. N. Bolton, M. Jo Bitner pubblicato nel 2013 nel Journal of Marketing Research e intitolato “Decoding Customer-Firm Relationships: How Attachment Styles Help Explain Customers’ Preferences for Closeness, Repurchase Intentions, and Changes in Relationship Breadth” che analizza quattro tipologie di persone: secure, ambivalent, avoidant, disorganized)
  2. lo stimolo che dovrebbe convincere la persona a lasciarsi coinvolgere (per esempio esso può essere un messaggio pubblicitario, un’offerta promozionale, l’indicazione di un influencer, il consiglio di una persona amica, o appunto l’invito a condividere con l’azienda un’esperienza di co-creazione). Giocano un ruolo importante gli aspetti fiduciari (precedente conoscenza e preferenza verso il brand, il riverbero sociale, la qualità percepita del servizio, la relazione già avviata e sperimentata). Lo stimolo ha un impatto diverso non solo in funzione di aspetti caratteriali della persona, ma anche in relazione a beni e servizi e come questi sono percepiti
  3. il contesto, la situazione in cui si trova la persona quando riceve lo stimolo (per esempio è vicina o lontana al momento in cui decide di fare un certo acquisto, oppure non è del tutto interessata al prodotto quando riceve lo stimolo). La construal-level theory-clt, formulata nel 2010 da Yaacov Trope e Nira Liberman nel loro studio “Construal-Level Theory of Psychological Distance” nota anche come teoria della distanza psicologica, è utile per capire se il cliente riesce a fare proiezioni sul proprio futuro in relazione a un prodotto/servizio e relativa marca e quali comportamenti pensa di tenere. Il coinvolgimento non è solo nel qui e ora, ma può essere pianificato in un tempo più o meno lontano agendo sulla memoria, ossia ricordando al soggetto situazioni, occasioni, opportunità in cui si potrebbe avverare il coinvolgimento in un’esperienza piacevole e desiderata (e ovviamente anche un acquisto).

Alcuni studi hanno mostrato che l’involvement è sia personale sia collettivo, ossia implica una sorta di condivisione sociale. I consumatori acquistano marche per esprimersi, ne fanno un uso pubblico e simbolico e non solo funzionale e privato. È soprattutto nel caso di un uso pubblico che la personalità della marca deve combaciare con quella della persona per attuare un pieno coinvolgimento, una sorta di identificazione con la marca.

A questo punto bisogna introdurre due temi molto importanti che impattano sul coinvolgimento psicologico: brand personality e brand anthromorphysm.

Se moltissime aziende, soprattutto nel largo consumo e per beni funzionali a basso coinvolgimento emotivo e sociale, sollecitano solo opportunismo (invitano a cogliere per esempio il lato convenienza, “offerta speciale super scontata”), altre puntano al coinvolgimento emotivo/sentimentale verso la propria marca (e sottostanti prodotti/servizi). Tale coinvolgimento poggia anche sulla personalità della marca (per approfondire questa tematica: “Dimensions of Brand Personality” di Jennifer L. Aaker pubblicato nel 1997 sul Journal of Marketing Research e “The cognitive bases of anthropomorphism: from relatedness to empathy” di Gabriella Airenti dell’università di Torino pubblicato nel 2015 sull’International Journal of Social Robotics).

Un brevissimo cenno alla brand personality è utile per capire i meccanismi che muovono la mente di consumatori nello sviluppare atteggiamenti verso la marca fra cui l’involvement di cui si occupa il cim. I primi studi pionieristici sulla personalità della marca risalgono alla fine degli anni ’50 e nel tempo hanno confermato la validità di questo costrutto che individua 5 tratti fondamentali (detti Big Five) che si ripetono con maggiore frequenza rispetto a 133 altre caratteristiche:

  1. sincerity (sincerità)
  2. excitement (emozione)
  3. competence (competenza)
  4. sophistication (raffinatezza)
  5. ruggedness (robustezza).

Si tratta di dimensioni della personalità della marca che innescano nel consumatore forme di identificazione che lo aiutano a esprimersi e che possono essere strumentali nella presentazione di sé e nelle relazioni sociali. I brand che scelgono e riescono a mettere in luce chiaramente uno di questi tratti della personalità sono in grado di influenzare le preferenze del consumatore e a indurlo a un maggior utilizzo del prodotto. La personalità della marca si può manifestare anche attraverso l’antropomorfizzazione ossia l’aggiungere caratteristiche umane e non solo tratti del carattere umano (big five) ai prodotti e a tutto il sistema in cui il brand opera (come i touchpoint fisici e digitali). Ne è nato un brand anthropomorphism marketing (per una presa di visione complessiva del tema è utile “A review of brand anthropomorphism marketing research” pubblicato nel 2021 da Xinyi Jin e Min Qian sul Bcp Business & Management Journal).

Lo scopo della comunicazione che esalta l’antropomorfizzazione è quello di soddisfare alcuni bisogni psicologici delle persone nell’espressione di sé e nelle relazioni sociali. In prospettiva l’antropomorfizzazione (o umanizzazione) della marca vuole suscitare un sentimento di empatia che ha ripercussioni positive sulla loyalty (si veda lo studio “Brand anthropomorphism: conceptualization, measurement, and impact on brand personality and loyalty” realizzato da Gianluigi Guido e Alessandro M. Peluso e pubblicato nel 2015 sul Journal of Brand Management).

Questa lunga premessa è stata necessaria poiché quando si parla di involvement ci si riferisce a un sentimento e quindi tutta la comunicazione correlata ne deve tenere conto anche quando il coinvolgimento, oltre a stabilire affettività per la marca, deve produrre conseguenze monetizzabili (ossia acquisti da parte del consumatore).

Se la comunicazione a supporto di campagne di crm punta a un richiamo sul qui e ora (cogliere l’opportunità) e su prezzo/convenienza (beneficio tangibile), il cim opera su un piano psicologico diverso e va sottolineato che l’involvement precede e condiziona l’engagement nonché la loyalty.

Il coinvolgimento è un sentimento che si nutre del contributo attivo dei clienti, una comunità che vive un attaccamento e una perfetta integrazione con gli elementi identificativi, di scopo e di valore del brand (la loyalty raggiunge il suo livello più alto diventando “attitudinal”).

Come si è visto, ci sono 4 diverse modalità di coinvolgimento; coaching, advising, reporting, partening. Quest’ultima è la forma più estesa di cim e richiede un cliente non solo coinvolto (in termini di preferenza, passione, adesione all’identità e purpose del brand/azienda), ma addirittura inserito in azienda, con un profondo livello di intimacy e un coinvolgimento laborioso che impegna tempo.

Anche quando le aziende ricorrono alle altre tre forme di coinvolgimento meno impegnative devono comunque mettere a disposizione dei clienti (e potenziali tali) strumenti (un tool kit) per recepire la loro voce e una struttura aziendale addestrata all’ascolto e capace di interpretare i segnali che arrivano da loro. Si possono segnalare fra i facilitatori: soluzioni di touchpoint interattivi, app di vario tipo fra cui quelle di community che abilitano alla cooperazione attiva, una sezione del sito web dell’azienda dedicato alle collaborazioni spontanee dei consumatori.

Nel cim hanno un ruolo decisivo le persone dell’azienda che si relazionano con i clienti: dai commessi sul punto di vendita fisico al personal stylist nei siti online di ecommerce, da consulenti che l’azienda mette a disposizione gratuitamente per alcune ore alla settimana ai servizi di assistenza poiché è importante si stabilisca credibilità, confidenza, fiducia. I clienti sono spesso disponibili a farsi coinvolgere se trovano effettivo ascolto e si rendono conto di essere apprezzati.

Va tenuto presente che l’involvement non deve essere solo quello che si vuole suscitare nei clienti, anche il personale dell’azienda andrebbe coinvolto poiché anche da loro possono venire suggerimenti e idee per migliorare i prodotti, crearne altri, gestire meglio funzioni e attività. L’azienda dovrebbe quindi investire in strumenti e procedure per realizzare un duplice involvement, quello dei clienti e quello dei dipendenti. TORNA AL SOMMARIO

Il cem, strumento sensibile

Il cem (customer experience management) è una strategia (che si avvale di strumenti e procedure) finalizzata a tracciare tutte le interazioni fra il cliente e l’azienda (ergo: brand, prodotti, servizi) al fine di conoscere e riconoscere le esperienze, come si formano e quali esiti producono.

Con il cem si entra nel complesso mondo dell’esperienza che non riguarda solo l’usabilità e le performance tangibili del prodotto o relative all’erogazione o prestazione del servizio, ma l’azienda prende in carico gli aspetti psicologici più sensibili del consumatore.

Prima di tutto, cosa è un’esperienza? Il termine esperienza deriva dal latino experientia e fa riferimento al verbo experiri con il significato di sperimentare, esplorare, acquisire conoscenza attraverso i sensi, provare emozioni, patire. Il termine inglese ha la stessa origine. È dunque un atto personale attraverso cui si impara a conoscere, si affinano i propri sensi, si percepisce la realtà. L’esperienza per quanto sensoriale non è comunque disgiunta da considerazioni e aspetti cognitivi, dianoetici (critici e razionali), valutativi, morali, nonché rielaborazioni conseguenti a ciò che si è provato. L’esperienza è un sentire (positivo, o negativo) del tutto personale, ma ben raramente è avulsa da influenze (occasionali, o sistematiche come per esempio la pubblicità, le opinioni correnti, le macro tendenze, il giudizio degli altri). C’è anche un’esperienza che viene richiamata alla memoria in un tempo successivo a quello in cui si è sperimentata. Si tratta di un’esperienza filtrata dal ricordo e, talvolta, è distorta da questo. Un altro aspetto da tenere presente sono infatti i bias, ovvero esperienze pregresse, pregiudizi, opinioni, convinzioni e particolari situazioni che non consentono un giudizio sereno. L’esperienza è condizionata da precedenti, dal valore e dall’utilità attribuiti, dalle reazioni emotive che si sono attivate, dalle conseguenze personali e sociali che si crede possano esserci, dall’eventuale impatto economico, dal differenziale con le aspettative, dall’unicità, o ripetitività, ma anche dal fatto di aver ricercato consapevolmente quell’esperienza, o averla subita inaspettatamente. L’esperienza può anche essere forzata da sistemi di engagement, allettata da un dono, da una prova gratuita. L’esperienza lascia sempre una traccia, un effetto lieve, o profondo a seconda della stimolazione ricevuta, dell’importanza che riveste, della circostanza, del momento, del touchpoint che l’ha resa possibile, della presenza o meno di altre persone che assistono, o condividono l’esperienza.

La risultanza dall’esperienza può essere: un’informazione (ovvero si è appreso qualcosa), una sensazione piacevole/spiacevole riferita ai cinque sensi (caldo, freddo, dolce, salato ecc.), un’emozione (noia, gioia, disgusto ecc.), un’impressione volatile e subito dimenticata tanto quanto qualcosa su cui ci si è fermati a pensare e ripensare. In pratica, la traccia che l’esperienza lascia nella memoria e le conseguenze che poi genera dipendono da moltissimi fattori.

In dottrina, sono stati classificati 7 tipi di esperienza (che perseguono obiettivi diversi nel “legare” le persone alle marche e si esplicitano in modalità differenti). Le passiamo in rassegna:

  1. sensoriale: è l’esperienza filtrata dai cinque sensi e attraverso questi sono percepite sensazioni piacevoli tanto quanto quelle sgradevoli al tatto, all’olfatto, alla vista, all’udito, al gusto. L’esperienza sensoriale ci accompagna tutta la vita ed è quella maggiormente correlata all’esperienza emotiva. L’esperienza sensoriale è in grado di attivare aree del cervello fondamentali per fissare e richiamare ricordi. Nel contesto del cem, l’esperienza sensoriale occupa una posizione fondamentale poiché è una costante che riguarda qualsiasi prodotto o servizio, ma anche luogo fisico o virtuale, situazione in cui si manifesta. Tracciare e conoscere a fondo le esperienze sensoriali consente alle aziende di avere indicazioni di valore (come per il cim si possono cogliere informazioni cruciali che hanno un impatto su prodotto/brand/azienda)
  2. emotiva: si riferisce agli stati d’animo, ai sentimenti, alle reazioni emotive (che sono uno stato psichico transitorio) di cui si può addirittura misurare la natura e l’intensità (per esempio con le tecniche e gli strumenti di neuromarketing) quando sono positive (come gioia e tranquillità), o al contrario negative (ira e inquietudine). È il tipo di esperienza che porta ad amare e preferire un marchio, o al contrario a respingerlo fino a detestarlo (per la classificazione delle emozioni si può utilizzare GoEmotions che ne ha rilevate 27 di cui 12 positive, 11 negative, 4 ambigue e 1 neutra). Come per l’esperienza sensoriale pure quella emotiva consente di rilevare dati di cruciale importanza
  3. cognitiva: è basata su ragionamento, attenzione e consapevolezza, sul calcolo razionale, sul soppesare e confrontare vantaggi e benefici, sul cercare informazioni, ma è anche apprendimento e sedimentazione di quel che si è imparato e compreso, è un’esperienza che può portare alla revisione, al rovesciamento di quel che si era percepito con una precedete esperienza che aveva lasciato spazio solo all’emotività
  4. pragmatica: è l’esperienza che nasce utilizzando un prodotto/servizio, è cercata e messa in atto volontariamente, è talvolta sperimentazione, tentativo, interpretazione e rielaborazione creativa
  5. lifestyle: si tratta di mostrare e mostrarsi nei contesti di vita, nelle proprie relazioni on/offline, di esibire un brand rendendo nota la propria preferenza e appartenenza al mondo di quella marca, è talvolta un’esperienza strumentale per riaffermare la propria personalità, il proprio gusto. Aspetti molto importanti da prendere in considerazione anche per quel che riguarda la comunicazione di marca
  6. relazionale: è l’esperienza che nasce dalle interazioni (soprattutto nella vita reale) con altri soggetti, può essere una relazione di scambio, discorsiva, può essere una richiesta di approvazione e collaborazione, è un’esperienza che a volte avviene all’interno di una community specifica (per esempio i fan club di un brand automobilistico, o della moda, o di una squadra sportiva). L’esperienza relazionale riguarda l’interfacciarsi dei clienti con il personale dell’azienda i cui esiti (positivi/negativi) hanno notevoli ripercussioni sulla preferenza di marca e sulla fedeltà
  7. social: è la relazione virtuale come nel caso delle condivisioni sulle piattaforme social online (per esempio postando su Instagram qualcosa realizzato con prodotti del brand preferito, rilasciando commenti, mostrandosi con il prodotto acquistato ecc.).

Queste 7 tipologie di esperienze si intrecciano in vari momenti e contesti della nostra vita, non sono mai nettamente separate, talvolta sono simultanee, o contrapposte giacché ogni persona adotta numerose marche in funzione delle diverse categorie di prodotti/servizi di cui ha necessità (o vanità da soddisfare), nonché le esperienze avvengono in luoghi e situazioni che ne possono (almeno in parte) condizionare l’esito. Così, un’esperienza di prodotto può contrastare con un’esperienza diretta con il punto di vendita in cui è stato acquistato, con il comportamento di un operatore del customer center dell’azienda produttrice. Parimenti, dal razionale si passa all’emotivo e viceversa, un’esperienza che era sembrata piacevole con un servizio si tramuta nel bando dalla propria vita del suo marchio perché c’è stata una critica negativa durante l’esperienza lifestyle. In realtà tutte le esperienze si accumulano ed elidono, si dimenticano e si rinnovano, perlopiù passano del tutto inosservate nella routine quotidiana. Sono quasi sempre esperienze effimere a cui si presta ben poca attenzione e consapevolezza, tuttavia quelle rare che creando dei picchi negativi, o estremamente positivi diventano dei punti di ancoraggio nella nostra memoria, che però non è infinita. Vi sono limiti alla memoria, i ricordi possono essere fallaci, cui si aggiunge la distratta e fuggevole attenzione che si presta in attività ripetitive, o con basso livello di importanza, o che non presentano rischi.

Attorno al concetto di esperienza è nato il marketing esperienziale che riguarda sia i prodotti/servizi sia i luoghi di vendita (ancora di grande utilità è il libro “Planète conso: marketing expérientiel et nouveaux univers de consomation” edito da Éditions d’Organisation nel 2002) e parimenti sono stati messi a punto gli strumenti per analizzare gli esiti dell’esperienza sia nella relazione con la marca (fra cui le analisi relative al divario fra come la marca vuole essere percepita e come lo è realmente) sia per quanto riguarda i luoghi di vendita (per esempio le soluzioni di layout di superfici di vendita che favoriscono le esperienze positive e un frequente ritorno dei clienti con relativo impatto sugli acquisti). Le analisi delle esperienze si estendono praticamente su tutti i touchpoint on/offline che l’azienda mette a disposizione, sulla comunicazione in tutte le sue forme, le opportunità di relazione attivate.

Il cim attraverso l’involvement e il cem attraverso l’esperienza rivelano la complessità della persona nei suoi molteplici ruoli (acquirente, decisore, consumatore diretto, preparatore e somministratore di quanto acquistato, sperimentatore, influenzatore nella cerchia di amicizie e molti altri ruoli), come prende decisioni, quali aspettative ha, cosa motiva o demotiva, come si interfaccia con i brand e tanto altro ancora che emerge utilizzando le metodiche e gli strumenti di queste forme di management, che consentono inoltre di acquisire conoscenze approfondite ed estese su diversi parametri critici. Quindi non solo bisogni latenti e ancora inespressi, fantasie che potrebbero rivelarsi visionarie, manifestazione di nuovi gusti e tendenze, ma individuazione di problemi a cui dare soluzione, carenze che impediscono la piena fruizione di un servizio, mancanza di soluzioni di comunicazione a due-vie ergo di dialogo, impossibilità di relazionarsi con altre persone e condividere esperienze. Insomma se guardiamo a cim e a cem quello che risulta evidente è l’ampiezza dei dati che forniscono da cui ricavare insegnamenti e fare scelte che avranno come obiettivo la customer retention e una loyalty sincera e duratura. C’è anche un altro vantaggio che entrambe queste tipologie di management forniscono, si tratta della possibilità di configurare gli strumenti e gli applicativi per raccordarli con i processi relativi alla qualità in senso esteso:

  • prevista, allineata alle attese del target e alla brand platform
  • progettata per rendere effettiva la qualità prevista
  • promessa come parte integrante della comunicazione di prodotto e di marca
  • erogata secondo gli standard definiti
  • percepita per ridare avvio al miglioramento continuo.

Ai settori che hanno maggiormente utilizzato finora il cem (turismo, hôtellerie, ristoranti, banche, assicurazioni, servizi medici e centri benessere ecc.) se ne possono aggiungere diversi altri poiché non si tratta solo di beni materiali, o di “product-as-a-service”, o di servizi tout court, ma si tratta di dare all’azienda la possibilità di avere una visione omnicomprensiva che tocca l’azienda stessa, la marca e tutto quello che entrambe sottendono (ivi comprese gli interscambi che avvengono nelle filiere di appartenenza). Cim e cem si installano non solo nella relazione dei clienti con l’azienda e la marca (in queste sigle i termini customer e management farebbero erroneamente pensare a una esclusiva quanto limitata gestione solo del cliente finale), ma si possono innestare persino nelle relazioni con tanti diversi pubblici con cui l’azienda, a vario titolo, intrattiene scambi (economici, di ricerca, amministrativi, in pratica funzionali all’azienda nel suo complesso e alla presenza sul mercato nazionale e estero). Si possono così ottenere insight di grandissimo valore per la gestione complessiva dell’azienda. Va sottolineato che, in relazione ai clienti, da soli cim e cem non bastano, l’integrazione con il crm consente di disporre di altri dati fattuali così da avere una visione completa della persona (ergo non solo dell’acquirente, dell’utilizzatore e sperimentatore del prodotto, o altri ruoli). TORNA AL SOMMARIO

Il ckm, strumento completo

Il ckm (customer knowledge management) è un altro insieme di soluzioni ict (gestionali, applicativi) nonché di strumenti e metodi di ricerca e analisi che consentono la gestione dei clienti. In questo caso il focus è sulla conoscenza attraverso forme di coinvolgimento, esperienza, relazione. Al momento attuale è la forma più completa di gestione dei clienti.

La strategia che si basa sulla conoscenza individua prima di tutto quale è il tipo di sapere (dati, elaborazioni, competenze ecc.) indispensabile all’azienda per perseguire con successo i suoi progetti. La conoscenza ricercata è conseguente al comportamento che l’azienda persegue sul mercato (per esempio, adattivo, anticipativo, innovativo), da cui discendono le scelte operative relative a prodotti/servizi, gestione dei brand, mercati da servire ecc. Se le fonti da cui trarre conoscenza sono molteplici (come ricerche sociodemografiche, panel con i clienti, studi di settore, riscontri del customer care e da tutti i touchpoint con cui i clienti si relazionano e altri “depositi” da cui estrarre informazioni da elaborare), è parimenti necessario fare una scelta e definire una metodologia che indichi quali strumenti preferire per ottenere un flusso di conoscenza funzionale alla strategia, come incanalarla, conservarla e renderla accessibile e fruibile ai gruppi di lavoro. Altrettanto fondamentale è la scelta di come elaborare i dati al fine di estrarre informazioni in grado di diventare conoscenza, ovvero una risorsa che alimenta idee completamente nuove. Un passaggio altrettanto cruciale è la distribuzione della conoscenza all’interno dell’azienda, abbattendo silos e rivedendo processi aziendali di condivisione.

Il ckm richiede in pratica un cambiamento nei processi interni, nelle metodologie di lavoro e di condivisione di una conoscenza che diventa multisfaccettata (non è più la sola conoscenza del cliente emptor/acquirente, o del cliente ludens che passa di esperienza in esperienza). È una conoscenza pervasiva del cliente, che riceve dal cliente e deve fornire al cliente contenuti. Accenno solo al fatto che vi sono diverse metodologie per la gestione della conoscenza (per esempio il modello seci- socializzazione, esternalizzazione, aggregazione, internalizzazione). In ogni caso, è necessario che ogni azienda si doti di un sistema proprietario per la gestione della conoscenza poiché questa è strettamente collegata alle strategie e non può quindi essere generata da soluzioni standardizzate che anche altre aziende utilizzano (come è appunto il crm che essenzialmente registra il lato vendite e il cui software è ormai standardizzato). Entriamo ora nel ckm e nella sua operatività:

  • conoscenza per i clienti per metterli nelle condizioni di conoscere l’azienda e il brand, di imparare a utilizzare i prodotti/servizi nel migliore dei modi, di gestire correttamente anche il fine vita dei prodotti. Per attivare questa conoscenza l’azienda utilizza owned media (dal packaging del prodotto al sito aziendale, dal libretto di garanzie alla presenza sui social, dalla monografia d’impresa agli eventi e molto altro ancora) nonché si serve di diverse tipologie di comunicazione (di prodotto, finanziaria, istituzionale ecc.) on/offline che utilizza una pluralità di canali. Una relazione equilibrata dovrebbe sempre mettere i clienti nelle condizioni di conoscere l’azienda (per esempio i siti produttivi visitabili, la presenza di un museo aziendale, le innovazioni brevettate e molti altri argomenti), il brand (la sua storia, la comunicazione ecc.), i prodotti/servizi (l’intera filiera produttiva e ogni altra informazione che possa servire ai clienti a familiarizzarsi con l’universo aziendale). Come indicato, questa conoscenza può essere divulgata attraverso vari touchpoint, alcuni consentono anche una forma di dialogo che restituisce all’azienda un utile feedback per migliorare il ciclo della conoscenza.
  • Conoscenza dei clienti, dell’insieme delle loro azioni, dei loro pensieri e opinioni, delle loro esperienze e delle loro relazioni che si instaurano sull’asse azienda-brand-prodotti/servizi. Questa conoscenza non riguarda quindi solo le vendite, ma vi sono ricerche e soluzioni (si è visto il cim e il cem, molto utile è anche il metodo “the voice of customers”, ricerche qualitative di vario tipo, le interazioni online sui social, i report del customer care e altre fonti ancora) per poter approfondire la conoscenza delle persone in toto, indipendentemente che non siano ancora clienti, lo siano attualmente o non lo siano più. La conoscenza del cliente come persona permette anche di spingere la ricerca per sapere quali alternative di prodotti/marche utilizza, mappando quindi la concorrenza.
  • Conoscenza da parte dei clienti si ha quando il cliente spontaneamente offre la sua opinione, consiglio, esperienza sull’uso che sta facendo dei prodotti. La ricerca per nuovi prodotti o per dare a quelli già esistenti una estensione di utilizzo nasce proprio dalla conoscenza del cliente quando è homo faber. Ascoltare i clienti consente di ottenere una grande massa di informazioni che possono essere processate dall’azienda, per esempio secondo le metodiche del new product development, per progettare o migliorare prodotti e servizi. Anche metodologie con “customer as innovator” apportano concreti benefici (si veda l’articolo “Customers as Innovators: a new way to create value” di Stefan Thomke e Eric von Hippel pubblicato nel 2002 sulla Harvard Business Review). Sono ormai disponibili diverse soluzioni informatiche che consentono al cliente finale di diventare coautore di modificazioni a un prodotto esistente, creando per esempio una nuova funzione. Anche la cooperazione fra clienti dovrebbe essere facilitata (a questo fine ci sono le app di community) poiché sono le persone che si servono tutti i giorni dei prodotti che ne possono scoprire difetti e limiti tanto quando potenzialità innovative. Il cliente cooperativo è un esperto competente, è una risorsa per l’azienda, ma richiede un adeguato apparato di ascolto e di inclusione.

Il listening dovrebbe essere parte integrante della strategia di comunicazione di ogni azienda, sebbene ci sia una vastissima letteratura sul tema dell’ascolto, nella pratica le applicazioni concrete non sono poi così numerose. Ci sono varie ragioni, la prima è che per ascoltare ci vogliono orecchie, fuor di metafora ci vogliono touchpoint capaci di diventare antenne che captano segnali, li trasmettono in azienda. Ossia ci vuole la volontà dell’azienda nell’impegnarsi e nell’investire in una strategia dell’ascolto che implica l’attivazione di relazioni aperte e cooperative. Ergo ci vogliono investimenti economici, in risorse umane, tecnologia, strumenti, soluzioni gestionali. Sviluppare la strategia dell’ascolto e della cooperazione con i clienti in chiave di ckm richiede che si instauri una cultura aziendale basata su:

  • apertura all’ascolto
  • capacità di ricezione
  • volontà di reciprocità
  • disponibilità all’ospitalità
  • impegno concreto
  • interattività
  • prontezza nel cogliere i feedback, elaborarli e distribuirli in azienda (abbattendo divisioni e silos).

C’è quindi bisogno di una architettura organizzativa improntata:

  • all’ascolto attivo e adattativo (indispensabile per costruire il dialogo)
  • alla comprensione senza emettere giudizi
  • alla risposta coerente

un’architettura che ha bisogno di tecnologie, strumenti, prassi e soprattutto persone formate per agire con competenza e capacità, dotate di sensibilità per relazionarsi con altre persone.

Imparare ad ascoltare e a rispondere adeguatamente dovrebbe essere parte del concetto di relazione (che implica forme di scambio, un legame, una connessione più o meno formale o partecipata).

Interagire con le persone significa andare oltre ai ruoli funzionali (come acquirente, consumatore e altre che ricoprono temporaneamente e in determinate circostanza) e considerare la persona nel suo insieme, nella sua capacità di influenzare fattori economici, culturali e sociali che impattano sull’azienda. TORNA AL SOMMARIO

 

Per chi volesse approfondire i modelli di conoscenza del cliente propongo l’articolo di Neda Sakhaee et al. intitolato “A comprehensive model for customer knowledge management mechanisms” incluso nell’opera del 2012 Customer-centric knowledge management: concepts and application, che offre un panorama completo del ckm.

Marilde Motta

Nella comunicazione dal 1978, in costante aggiornamento e approfondimento. Ho scelto le pubbliche relazioni come professione, dedicando attenzione a promozioni e direct marketing, su cui scrivo. Amo all’unisono il silenzio, i libri e i gatti. contatti@adpersonam.eu